venerdì 26 aprile 2013

ADE - SECONDA PARTE


Sarebbe stato del tutto inutile. Rudy, appena fuori, aveva cominciato a distruggere ogni singolo atomo di mate­ria che capitava a tiro dell'incredibile “raggio” che emetteva dal corno posto al centro della sua enorme testa. Riuscim­mo a venire fuori dal laboratorio solo dopo alcuni minuti dal­la “fuga”, ma la città che avevamo riportato alla luce e ogni parte visibile del deserto del Sahara lì intorno era completa­mente distrutta. Dove non era vetrificata la sabbia, c'erano mura ridotte in polvere oppure altre cose che bruciavano con fiamme di un'intensità che rivaleggiava con quella del sole del deserto. I draghi erano ritornati sulla Terra. Erava­mo lì, a guardare quel demone infernale. Rudy interruppe la sua azione devastatrice, si fermò a mezz'aria per un tempo che sembrò infinito, guardando nella nostra direzione ed infi­ne planò su una duna cristallizzata.
“IO SONO LUCIFERO, NUOVAMENTE SIGNORE E PADRONE DI QUESTO MONDO, ADE
“Mai. Ti combatterò fino alla fine della tua vita.”, fu' la risposta di Paolo. Le parole di Rudy erano esplose nella nostra testa ed io ero frastornata ma Paolo non sembrava averne risentito affatto.
SEI SOLO UN PICCOLO UOMO. IL TUO DESTI­NO È ADORARMI O MORIRE... COSA PUOI FARE?
Era senz'altro una domanda retorica, ma Paolo è un uomo concreto e pignolo e ad una domanda cerca sem­pre di rispondere in maniera quanto più precisa possibile: “cercherò Dio...”. Fissava Rudy dritto in quegli occhi sfavil­lanti. Rudy sembrò impazzire. Spiccò il volo di nuovo ed emise ancora una volta quell'incredibile ruggito. Mi misi le mani sulle orecchie che sembrarono quasi scoppiare. Rudy ci bersagliò con il suo raggio, ma Paolo si era tirato dietro lo scudo di kerbanio. “Stai qui dietro”, mi disse tirandomi per un braccio. Lo scudo stava cambiando colore ma resisteva. Ero avvolta da una luce di una intensità incredibile e l'energia deflessa dallo scudo fluiva quasi liquida dai bordi. Sembrava qualcosa di ultraterreno ma sapevo che una spiegazione scientifica doveva pur esistere, ma Paolo era sparito. Mi gi­rai giusto in tempo per vedere che stava tornando con il can­none neutronico. Si affiancò a me con il cannone, ben al ri­paro dello scudo dello stesso: “Vediamo se questo gli piace”. Armeggiò nella scatola dei circuiti elettrici: mi resi conto che escludeva il pannello di sicurezza che impediva sovraccarichi e picchi energetici. Richiuse il coperchio. Si girò verso di me, mi guardò e senza dire una sola parola mi baciò. Puntò il cannone verso Rudy, con i comandi al massi­mo e premette il pulsante che faceva attivare l'emissione di neutroni. Non successe niente ma si cominciò subito a sen­tire un ronzio in crescita. Con la modifica che aveva fatto stava ottenendo di accumulare la carica di neutroni senza emetterla. Avevo capito cosa voleva fare, ma se avesse sba­gliato i tempi, tanto valeva farsi incenerire dal raggio di Rudy. “Non ancora... non ancora... aspetta... fermo...” stava guardando il livello di carica che saliva verso la zona rossa, la raggiungeva e la superava. Alzò gli occhi verso Rudy, collimò il cannone, attese ancora circa un miliardo di millenni e poi pigiò il pulsante di rilascio della carica. Il sibilo acutissimo che aveva accompagnato gli ultimi istanti di caricamento dei neutroni venne sostituito da uno schianto che sovrastò il tuonante rombo del raggio di Rudy. Rudy venne colpito di sorpresa, perché la traiettoria del colpo neutronico venne mascherato dal suo stesso raggio. Vidi l'onda d'urto espandersi sul corpo di Rudy. Questa volta Rudy emise un suono di dolore, quasi un guaito; cambiò addirittura colore, stemperando il suo rosso fuoco in un verde marcio e crollò a terra. Grida di giubilo si levarono tutto intorno a me e Paolo. Erano i sopravvissuti ed erano molti più di quanti potessi sperare. Anche io battevo le mani felice della vendetta ottenuta. Paolo no. Era rimasto fermo a guardare Rudy, immobile a terra, dopo aver seguito la caduta. Però mi aveva preso la mano. Era passato un minuto e la sua mano si strinse un po'. Rudy si mosse, si mise sulle quattro zampe. Ci guardava ed era di nuovo del suo colore naturale.
INSETTI. SIETE SOLO DEGLI INSETTI!
Paolo alzò un sopracciglio, sogghignò e disse, qua­si a se stesso: “certi insetti hanno un veleno parecchio fasti­dioso, però, vero?”. Rudy lo fissò ancora più intensamente, si alzò in volo e quando fù a circa 100 metri di altezza si girò verso l'alto, emise un raggio quasi nero. L'aria tremolò e mi sembrò di vedere qualcosa muoversi oltre quel tremolio, ma la sagoma di Rudy si frappose sulla mia visuale e non fu più possibile vedere altro. Rudy sparì e l'aria tornò normale.

La conta dei morti fu dolorosa, triste, avvilente. Era­vamo arrivati in 5 squadre di 10 componenti ciascuna. Ora eravamo in 28. Per assurdo eravamo stati fortunati, perché l'enormità dello spazio da esplorare e da studiare ci aveva sparpagliati su una superficie molto vasta e alla fine Rudy aveva devastato solo le zone più vicine alla camera di conte­nimento. Dovevamo mettere un minimo di ordine. La prima cosa fu ricomporre i morti (quando si trovarono i loro corpi) e effettuare la cerimonia di sepoltura provvisoria, fino a che non venisse disposta la riconsegna ai familiari. Durante tutte le operazioni di recupero e ricomposizione, ci furono molte scene di dolore. Amicizie erano state distrutte, ma anche coppie sia di fidanzati che sposate non esistevamo più: uno o entrambi i componenti erano morti. L'unica fortuna, se di una fortuna si può parlare, fu che non vennero lasciati orfa­ni. Ventiquattro ore dopo la fuga di Rudy eravamo sullo spiazzo antistante l'entrata principale del complesso di ricer­ca degli Atlantidei e chi aveva voluto aveva potuto dire qual­che parola per i defunti. Ora era calato un silenzio di attesa: tutti guardavano Paolo, il capo spedizione, il fratello maggio­re di tutti e amico, che fino a quel momento non aveva fatto e detto niente. Uno strano sorriso fiorì sulle sue labbra. Mi strinse una mano e si alzò.
“Con molti di voi...”, il suo sguardo si posò anche sulle sacche nere, a comprendere gli amici non più presenti, “...ho iniziato quella che tutti avevamo definito una meravigliosa avventura. Scoprire che la razza umana era così antica e che aveva potuto raggiungere tali vette scientifiche e sociali è stata ed è la più grande scoperta della storia umana. An­che aver perso quella incredibile civiltà che furono gli Atlanti­dei, per poi ritrovarli, ci aveva fatto sperare che un giorno anche noi avremmo potuto ottenere quella pace e quella prosperità di cui già loro avevano potuto godere.” Si guardò intorno, incrociando gli sguardi di tutti i presenti. Vidi i suoi occhi diventare durissimi: “ma ora sappiamo che qualcuno ha voluto distruggere loro e tutto quello che avevano creato. Questo ha significato devastare il pianeta come neanche era successo nelle estinzioni globali avvenute nei 3 miliardi di anni da che la prima cellula si è evoluta sulla Terra. E' stato genocidio. Premeditato, organizzato ed attuato con la più assoluta pervicacia. La razza umana è regredita così tanto da ritornare a condizioni pre-umane, anche fisicamente. Abbiamo dovuto ripercorrere oltre un milione di anni di evoluzione. Ma ormai eravamo cambiati. Sono stati anni di sangue e di lotte senza fine. Abbiamo rischiato di infliggerci noi stessi l'estinzione. Loro, gli Atlantidei erano nobili e gentili; noi siamo cani rabbiosi, ci azzanniamo per un osso. Siamo forse il più grande successo immaginabile per Rudy e per il suo popolo, se esiste. Il male ha trionfato.” Si girò e andò via. Per chiunque non conoscesse a fondo Paolo sembrava un discorso disfattista e rinunciatario, ma io sapevo di no; speravo di no.
Stavo così male. Mi mancava terribilmente Simona, la sua dolce presenza, la sua vivida intelligenza... in lei ave­vo visto una possibile figlia, ma Chris era viva e tanto mi do­veva bastare. Durante il resto della mattina sentii le persone affaccendarsi intorno a me, ma fui sordo e cieco. Poi, mi sono addormentato. Una mano mi scosse e poi mi toccò il viso. Quando aprii gli occhi il sorriso di Chris mi accolse. “Come stai? Ti ho portato qualcosa da mangiare”. Mi stirai. “Grazie amore, sto molto meglio.” Infilai la forchetta nei miei spaghetti preferiti, una norcina con salsicce e tartufo della mia regione. In genere chi non è abituato dice che i prodotti di derivazione suina umbri sono troppo saporiti e conditi, ma per chi è nato e/o cresciuto in Umbria i prodotti suini di altre regioni, per non parlare di altre nazioni, non hanno un sapore degno del palato umano. Mangiai di gusto anche la braciola di maiale e le patate arrosto che seguirono gli spaghetti. Chris mi fece compagnia in silenzio, seguitando a guardarmi con un sorriso contento. Stavo covando qualcosa e pur non sapendo di preciso cosa, Chris lo aveva capito. Raggiunta la pace assoluta, con il mio 'sacro' caffè in mano, era ora che sfornassi l'uovo. Era un nostro gioco per quando avevamo delle “illuminazioni” e cioè delle intuizioni che risolvevano dei problemi in genere ostici. “Due tuorli, giusto Paolo?”. “Tre”, risposi. “Wow!”, fu l'espressione di Chris a occhi spalancati.
Ma dovetti rimandare la frittata, perché Antonio, che era ferito ma vivo, ci interruppe. “Paolo, sono riuscito a contattare il Q.G.” (Quartier Generale), “a New York. Ci sono brutte notizie.” Mi passò il telefono satellitare e la voce del delegato ONU alle ricerche archeologiche, Micheal Ross, mi accolse. “Ciao Paolo. Antonio mi ha spiegato cosa avete passato. Pensavamo che foste tutti morti, perché il trasporto mensile per i rifornimenti ha visto la scena del drago che di­struggeva tutto. Ma devi sapere che qui è andata pure peg­gio... Molto, molto peggio. Non esiste più una singola capita­le regionale...” le ex capitali nazionali “...e anche molte città minori sono state distrutte dal drago sfuggito dal vostro labo­ratorio...”. Ero devastato, era passato poco più di un giorno da quando era andato via: “Mike, sei sicuro che fosse lui?”. La risposta fu definitiva: “si, le foto che ci avete inviato ci hanno dato un termine di confronto e poi si è sempre pre­sentato. Ascolta, questo è il file audio di ciò che ha udito un sergente dell'esercito e che ha potuto ritrasmettere 2 ore fa da S. Paolo, Brasile: -IO SONO LUCIFERO. VOI SIETE MIEI SCHIAVI. ADORATEMI E VI SALVERETE. ALTRIMENTI LA TERRA FARÀ LA FINE DELLA VOSTRA LUNA. DOMANI, ALLE ORE 18 DI GREENWICH VI MOSTRERÒ IL MIO POTERE!-. Poi S. Paolo è stata incenerita. Insieme al sergente che ha registrato il messaggio. Per ora ha smesso, ma la stima dei morti supera i 2 miliardi.” Lo disse con una voce orribile, perché quella cifra era circa il 50% della razza umana; ma se volevamo salvare chi rimaneva dovevo sapere una cosa: “come si spostava Rudy?”. Sentii Mike chiedere informazioni. “Pare che appaia dal nulla dopo che una piccola tempesta ha smosso l'aria nel punto dove poi apparirà.” L'ultimo tassello del puzzle era andato al posto e mi era tutto chiaro.
Paolo è sempre stato geniale, ma il suo genio se­gue percorsi diversi da quelli canonici. In genere un genio studia una vita seguendo la strada tracciata da chi lo ha pre­ceduto, così da avere le basi su cui operare, poi ad un certo punto la sua mente compie un balzo logico e con esso la co­noscenza umana stessa. Paolo di salti logici sembra compierne dieci tutti insieme. Qualcuno gli parla di un argomento, magari spiegandogli alcune basi, ad esempio una legge fisica fon­damentale che illustra le interazioni della materia con l'uni­verso e lui, pur senza conoscenze specifiche risolve l'enig­ma, con grande stupore generale. Quello che ha fatto a Rudy fuori dalla base è stato frutto di questo tipo di balzi in­tuitivi; il tecnico che ci aveva consegnato il cannone stava spiegando il suo funzionamento a Simona e Paolo era pre­sente. Tanto era bastato per far intuire che se esisteva un meccanismo per evitare i sovraccarichi, aggirare quel mec­canismo poteva rendere uno strumento l'arma più potente mai concepita fino a quel momento dall'uomo. Così era sta­to in grado di salvarci e prendere tempo per trovare la ma­niera di salvare ciò che restava della civiltà e della razza umana.
A quanto pareva Rudy ci aveva minacciato l'Apoca­lisse, se non avessimo riconosciuto in lui il nostro unico dio. Era ora di fare la frittata. L'appuntamento era per il giorno seguente ore 18 del meridiano di base a Greenwich, che in­sieme a Londra, nella quale era situato, non esisteva più fi­sicamente, ma solo come posizione geografica. Mike Ross ci aggiornò alla mattina successiva e ci salutò; faceva parte del Consiglio Straordinario ONU, vale a dire ciò che rimane­va dopo la distruzione della sede principale a New York. Presi da parte Paolo: “come pensi di fare a risolve­re il problema con Rudy?” Paolo mi sorrise: “Rudy è l'unico della sua specie presente sulla Terra, infatti finché è rimasto confinato nella gabbia il mondo è stato al sicuro e Mike mi ha confermato che è stato solo lui a devastare la Terra. Inoltre se ho potuto abbatterlo è stato perché era indebolito dal lungo confina­mento e dallo sforzo che ha dovuto sostenere per liberarsi. Questo ci dice che non è invincibile; inoltre esiste qualcosa o qualcuno che lui teme, Dio, che so cosa può essere e che lui ha potuto leggere nella mia mente. Un drago bianco, che forse appartiene ad una specie simile alla sua, ma che gli è nemico.” Lo guardavo attenta, ma non capivo come avesse potuto immaginare l'esistenza di un drago bianco. Ma ebbi un'intuizione anche io: “lo hai visto nella sua mente quando ci parlava!”. Sorrise contento: “l'ho sempre detto che sei in­telligente! Ma dovresti averlo visto anche tu, come tutti gli al­tri.” Mossi la testa nell'universale gesto di 'no'. “Allora abbia­mo appena scoperto che sono in grado di leggere la mente dei draghi, anche se solo quando comunicano con noi.” Ero esterrefatta: “questa cosa ci può essere molto utile. Ma c'è una cosa che non capisco. Perché Rudy ci vuole come suoi schiavi?” Paolo fece spallucce: “credo che siano una specie altamente sociale, ma stratificata, dove, come in molte comunità di mammiferi, un maschio domina le femmine e tutti gli altri maschi più giovani o deboli, che se vogliono un loro harem devono andarsene e creare un proprio dominio altrove. Rudy è un disadattato, complessato e frustrato, con ambizioni molto più grandi delle sue qualità di maschio e quindi il suo istinto al dominio si sfoga con chi può dominare molto più facilmente: noi. Un ragazzino immaturo e represso condiziona l'umanità e devasta la Terra da oltre un milione di anni.”
Ormai si era stabilito un dialogo in cui io facevo le domande e Paolo mi dava le sue risposte. “Ma come possia­mo contattare Nostro Signore, il drago bianco; senza conta­re che se è vero che Rudy era indebolito in 24 ore ci ha bat­tuti senza problemi e poi può scappare con il raggio nero, che vai a sapere cosa può essere.” Se ora mi avesse dato delle spiegazioni 'ragionevoli', anche se tutte da dimostrare, ero pronta a scolpire a mani nude la sua statua. “Il raggio nero potrebbe essere benissimo un raggio concentrato di gravitoni che, adeguatamente modulato, crea un passaggio, un wormhole, per dove meglio crede, visto che nel distrug­gere le capitali regionali ha seguito un percorso intorno al mondo ideale. Quando gli ho detto che avrei potuto cercare Dio, Rudy si è infuriato per due motivi: avevo capito con chi avevo a che fare e stavo per comunicare con il drago bian­co, che mi ha pure percepito. Infatti Rudy ha interrotto subito la comunicazione telepatica con me. In quanto al combatte­re e distruggere Rudy, ci sono due modi: per mano del dra­go bianco, oppure ritorcendogli contro la sua stessa arma. Basterà creare un semi-guscio esattamente uguale alla gab­bia di contenimento che ha tenuto bloccato Rudy per un mi­lione di anni e dotarlo di un amplificatore di segnale. Rudy ci sputa addosso e noi gli spariamo un razzo in bocca cento volte più potente. Per contattare il drago bianco dovrei esse­re vicino a Rudy. Dovremmo capire dove intende apparire domani per mostrarci il suo potere sulla Luna.” Credo di ave­re fatto una faccia un pelino schifata quando mi alzai e mi diressi verso la porta che dava sull'esterno. Presi di sorpre­sa Paolo, che senza dire una parola mi seguì. Quando vide che cominciavo a scalpellare un grosso masso volle sapere: “cosa stai facendo Chris?” Dalla sua voce capii che era leg­germente preoccupato per la mia salute mentale. “Ti faccio la statua”, spiegai. Paolo scoppiò a ridere e, nonostante i miei tentativi per resistere, io con lui.
Come capire la posizione da cui Rudy avrebbe for­se attaccato la Luna fu una intuizione di Antonio. Quella sera a cena lo vedemmo entrare con un modello del sistema solare a cui erano stati tolti tutti i pianeti tranne Terra e Luna. Appoggiò il modello al centro del tavolo e si decise alla fine a parlare: “so dove lo farà”; ci guardò tutti con uno sguardo circolare e soddisfatto; fui costretto a tirarlo a terra: “ho sem­pre apprezzato la tua capacità di sintesi, ma è stata una giornata pesante e non credo di aver capito di che cosa stai parlando...”, feci una faccina di scuse. Mi guardò stupito del­la mia incapacità a capire una cosa per lui ovvia: “Rudy...” e smise ancora di parlare; sorrisi paziente e feci quel movi­mento circolare con la mano a dire 'prosegui'; proseguì: “do­mani, l'attacco alla Luna, no?”; sospirai, socchiudendo gli occhi (Antonio era una battaglia persa in quanto a loquacità) e chiesi: “dove, Antonio?” ed ero pronto a dargli una forchet­tata alla mano che teneva sul modellino se solo avesse det­to ancora 'no?', ma fu sufficientemente saggio e fece l'incommensurabile sforzo di dire qual benedetto nome sen­za aggiunte: “New York!”. Antonio è un altro di quei geni pre­coci che ci aiutavano tantissimo nel nostro lavoro ma era an­che estremamente timido e chiuso, ma gli volevamo bene tutti, anche se a volte ci sfiniva nel tentativo di estorcergli le informazioni che ci forniva goccia a goccia. Tentai ancora una volta di insegnargli come esprimersi: “so da dove Rudy attaccherà la Luna... New York! Semplice, diretto, breve”, lo guardai ma venni ricambiato da uno sguardo vuoto e disin­teressato. Stava già ragionando su altri problemi tanto che prese e andò via. Chris stava ridacchiando e così gli altri che erano a cena con noi lì intorno; alzai le braccia al cielo, sconfortato. “perché proprio sopra New York?” fu la doman­da che venne espressa da un ragazzo del team logistico; lo guardai e mi ricordai il suo nome: William. Un ragazzone di 25 anni cresciuto a pesi e bistecche ma che aveva dimostra­to di saper ragionare anche meglio di certi saccentelli lau­reati e infatti pur nell'ovvietà della domanda era stato il pri­mo a porla. Ma ricordai anche che era stato uno di quelli che, come altri, lì al campo aveva subito una perdita: la sua fidanzata da sempre, Violet. Gli sorrisi e dissi: “due parole: capitale e sole. Mi spiego meglio anche se avrete senz'altro capito tutto” ammiccai, riferendomi ai microsillabi di Antonio, e ricevendo uno schiafetto da Chris: “la capitale mondiale New York, che infatti è stata lasciata intatta, per l'effetto psi­cologico e perché alle 18 di Greenwich il sole sarà quasi alli­neato alla luna e quasi sulla perpendicolare di New York e a Rudy serve energia per le sue 'armi'”. Ovvio, no?

La Luna. Gran bel posto, se si desiderava calma e tranquillità; sono ormai più di 50 anni che la luna è una sta­bile destinazione turistica, oltre che seguitare ad essere la base avanzata di tutti gli studi sullo, nello, per lo spazio, ospitando fin dal 2035 Base Luna; qualcuno aveva suggerito di darle il nome Base Alpha, ma l'evidente riferimento alla serie televisiva di fantascienza degli anni '70 era troppo diretto e avendo già avuto la disavventura di uno shuttle di nome Enterprise si era ritenuto di adottare un nome più neutro. La disavventura dello shuttle era consistita nell'uso di emergenza che ne era stato fatto dopo il ritiro dei rimanenti tre superstiti della flotta NASA: l'Enterprise era stato lo shuttle prototipo e dopo la cerimonia di inaugurazione (con alcuni degli attori della serie di telefilm) era stato messo a riposo e dimenticato, esposto al Jeffersonian di Washington, tra le altre numerose macchine volanti di tutte le epoche. Durante l'estate del 2018 nella stazione orbitante ISS (anche questa inizialmente chiamata Alpha), si era sviluppato un incendio devastante, che nessun sistema di sicurezza era stato in grado di prevenire, rilevare e domare (si era sviluppato in una sezione senza aria per dei problemi elettrici causati dai danni dell'impatto di un micro-meteorite e che poi avevano incendiato dei materiali che, a quanto pare, bruciavano benissimo anche senza l'ossigeno presente nell'aria e dato che i sensori di fumo e calore erano presenti solo all'interno delle zone pressurizzate, nessuno aveva notato il problema se non quando era ormai di dimensioni ingestibili). Il modulo di recupero di emergenza, cosa nota, era di dimensioni insufficienti a contenere tutto l'equipaggio presente sulla stazione in quel momento, in via del tutto straordinaria. Ma basta una singola volta che tutto vada a mettersi di traverso (Legge di Murphy) e la catastrofe diventa praticamente inevitabile. La NASA mise in moto tutti i suoi esperti di missione per vedere di escogitare una soluzione, pressoché miracolosa, nel giro di 12 ore (il tempo durante il quale il fuoco si sarebbe diffuso al resto della struttura, mettendo in trappola l'intero equipaggio); non c'erano vettori pronti e al minimo ci sarebbero voluti 2 settimane (!) per allestirne uno e dotarlo di un modulo di recupero di misura sufficiente ad ospitare anche le persone rimanenti dopo l'evacuazione con il modulo presente sulla ISS; anche il lanciatore Russo Soyuz era indisponibile; il prototipo della navetta ESA-Cina era ancora solo uno scheletro. La soluzione venne fuori da un nuovo assunto NASA, fan del mondo Star Trek, che si ricordò dell'esistenza del prototipo Enterprise; nel giro di 20 ore era sulla rampa di lancio (nel frattempo la ISS era stata evacuata, approfittando delle tute per le EVA (Extra Veicular Activity), che davano fino a 10 ore di aria; quando l'Enterprise abbordò i superstiti era rimasta loro aria per circa 12 minuti; i problemi di verificarono al rientro, infatti lo shuttle andò incontro a tutti i problemi che erano poi stati risolti sui suoi fratelli nel corso degli anni: molte delle piastrelle ceramiche che componevano lo scudo termico per il rientro si staccarono e l'innalzamento della temperatura nelle sezioni scoperte provocò molti danni ai sistemi di controllo, tra cui quelli di manovra, rendendo impossibile governare il volo planato; una delle ali era stata danneggiata al decollo a causa del distacco di un pezzo di schiuma isolante del serbatoio del propellente e seppure in maniera minore rispetto al danno che aveva provocato il disastro che aveva distrutto un altro shuttle, rischiava di rendere il rientro movimentato. Appena lo shuttle toccò l'atmosfera cominciò a mettersi di traverso per le turbolenze generate sull'ala danneggiata e il blocco dei sistemi di controllo del timone impedì di correggere l'assetto; lo shuttle venne giù vorticando su se stesso e andò a schiantarsi in mare; si ipotizzò che forse erano già tutti morti prima del contatto con l'acqua, per la centrifuga subita, che si era calcolata essere intorno ai 20 G di accelerazione: letale al 99%.
Questo incidente insegnò molte cose; prima di tutto che le situazioni straordinarie dovevano essere assoluta­mente vietate: se la navetta di emergenza conteneva 4 persone, doveva essere vietata la presenza di più di quattro persone in orbita; sulla defunta ISS ne erano presenti 12 e se mai fosse stata allestita una nuova stazione orbitante do­vevano essere previsti attacchi multipli per navette multiple, da rendere disponibili in quantità adeguate a secondo delle esigenze del momento. Seconda cosa: i costi di sviluppo di nuove tecnologie di trasporto da e per lo spazio erano enor­mi quindi andavano ammortizzati in tempi molto più lunghi e i programmi di sviluppo dovevano tenere conto di migliorie e aggiornamenti progressivi e non di progetti completamente nuovi ogni volta; in parole semplici significava pensare a vet­tori che durassero almeno 50 anni e progettati per essere adatti ai compiti prevedibili anche fra 50 anni ed eventual­mente facili da aggiornare in caso che le previsioni non fossero state giuste; invece di progettare e sviluppare, ad esempio, dei rover per l'esplorazione sul suolo marziano ex-novo, con costi di miliardi di dollari, poteva essere sufficiente prendere un grosso SUV (si, avete capito bene, gli inutili ed ingombranti macchinoni per falliti di successo) spogliarlo della carrozzeria, dotarlo di sospensioni e ruote adatte (per il trasporto sulla terra ne esistono di ogni sorta e genere e sa­rebbe sicuramente possibile sceglierne un tipo, o più di uno, adeguato), di un sistema di propulsione elettrico (pannelli solari, fuell cell a idrogeno, nucleari o persino a pedali: telefonate ad una qualsiasi casa di produzione automobilisti­ca e la soluzione, quasi sicuramente, già esiste e saranno ben lieti di fornirvela quasi gratis a patto di rendere nota la sua determinante partecipazione) ed il gioco è fatto; difficil­mente si supereranno i dieci milioni di dollari e ve ne do' un esempio: per costi intorno a qualche centinaio di migliaia di dollari e fino a circa un milione un privato cittadino si può co­struire, partendo da un pickup o da un suv qualsiasi, un Big Wheel, vale a dire quelle macchine con enormi ruote da trat­tore sterzanti e motrici, sospensioni allungate e rinforzate; il lavoro può essere fatto o da una ditta specializzata o dal fu­turo, orgoglioso, proprietario del mezzo che sappia fare saldature adeguate per mettere insieme i materiali comprati in una ferramenta o da una azienda che tratta materiali me­tallici; il problema che si pone per un mezzo NASA, è che questo agisce in ambito di mancanza di gravità e atmosfera, quindi sottoposto ad escursioni termiche enormi, ma se è vero come è vero che di materiali sofisticati l'industria ne ha ideati parecchi, non vi è dubbio che un blend adatto sarà già pronto da mettere in opera; stesso discorso vale per un eventuale shuttle: pur dovendo progettare un qualcosa di molto più complesso di un rover, una volta creato un proget­to che incorpori tutte le migliori tecnologie del momento, per ogni singolo settore (materiali e strutture, sistemi di propul­sione, elettronica di bordo) un progetto può venire costantemente aggiornato con i miglioramenti tecnologici che via via verranno resi disponibili; gli shuttle NASA, salvo correre ai ripari dopo le catastrofi o difronte ad evidenti difetti progettuali, sono rimasti quasi immutati per 25 anni; non hanno mai sostituito la schermatura a piastrelle con un ma­teriale diverso (il meglio del meglio all'epoca del progetto iniziale, ma comunque sempre critici, per la loro stessa na­tura modulare, che se da un lato consentiva una semplificata sostituzione [se si stacca una mattonella, rimet­to una mattonella, invece di sostituire tutto lo scudo danneggiato], rendeva la struttura debole durante l'uso), né pensato di installare un sistema di propulsione per il rientro, che rallentando la velocità di impatto e dando capacità di controllo potesse rendere la manovra nettamente meno critica; era sufficiente mettere a disposizione in orbita dei piccoli serbatoi di propellente (a misura della stiva di carico dello shuttle stesso) che subito prima del rientro sarebbero stati installati e usati ripetutamente; un altro grosso problema era la natura prototipale e quindi i piccoli numeri di produzione (5 in tutto) che non consentivano di effettuare correzioni e migliorie alla struttura ne di adattarla ad usi diversi. La soluzione a tutti questi problemi e ad altri fu data da una gara di appalto che il Commissario della nuova struttura per le attività spaziali americana (USSA, United States Space Agency, poi UNSA United Nations Space Agency, quando ESA, agenzia spaziale russa, cinese e giapponese si unirono al progetto) indisse nel 2019; le specifiche di base erano: struttura modulare, con cabina di pilotaggio fissa e quattro tipi di strutture intercambiabili (trasporto persone, materiali, mista delle prima due, fino alla Luna e una quarta per voli entro il sistema solare, con schermatura elettromagnetica contro le radiazioni e modulo di simulazione gravitazionale, per intenderci la ruota per criceti, già vista in molti film di fantascienza, propulsione sia chimica che elettromagnetica, se possibile, altrimenti prevedendo la possibilità di un uso futuro). Le due parti più costose, il modulo di comando e abitativo, più la propulsione, vengono agganciati a uno qualsiasi delle quattro strutture a seconda delle necessità, con sistemi di aggancio di tale resistenza da rendere la struttura più solida che se fosse stata costruita in un solo blocco (come era il vecchio shuttle), grazie a materiali avanzatissimi attraversati da correnti elettromagnetiche scaturite da un generatore nucleare dalla resa incredibile grazie all'effetto di superconduttività che si origina a temperature molto vicine allo zero assoluto (-273,15 c°), che permette alle correnti elettriche e quindi anche a quelle magnetiche di fluire senza dispersioni e resistenza (quindi senza sprechi)1; il sistema di propulsione era misto chimico-elettromagnetico, dove il primo veniva usato per decolli e rientri, mentre il secondo permetteva di schermare dalle radiazioni (ma era allo studio un potenziamento che avrebbe permesso anche una certa protezione da corpi solidi, come micro-meteoriti, sempre agendo sull'opposizione di carica elettromagnetica)2 oltre che spingere l'astronave all'interno di un campo elettromagnetico come quello presente all'interno del sistema solare grazie al vento solare; la grande innovazione del sistema elettromagnetico risiedeva nella possibilità di variare la carica del campo di protezione e del flusso propulsivo così da potersi adattare a qualunque situazione contingente, addirittura il campo di protezione poteva essere generato nei due stati (sia negativo che positivo) per poter essere sempre pronto indipendentemente dalla carica delle particelle o dei corpi che l'astronave incontrava nel suo cammino; con il generatore nucleare (in realtà ne vengono installati due; uno per lo scudo e uno per la propulsione) l'approvvigionamento energetico era garantito per almeno un anno di uso continuo, grazie al fatto che il sistema di generazione era a neutroni veloci, che rigenerano parzialmente anche le scorie di reazione, rendendole nuovamente utilizzabili come combustibile; rimaneva il problema della propulsione chimica per decolli e atterraggi, sostituibile (teoricamente) solo manipolando il campo gravitazionale e vale a dire creando un campo gravitazionale modulabile opposto a quello terrestre (o di qualsiasi altro pianeta in cui ci si trovasse ad operare); il problema principale era che i gravitoni, vale a dire le particelle che veicolano la gravità (come se fossero dei legacci che collegano tutte i corpi e le particelle dotate di massa: più massa, più circolazione di gravitoni, più forza di legame) non sono dotati di carica elettrica o di una qualsiasi polarità e quindi non esiste una anti-gravità in senso stretto ma solo la possibilità (sempre teorica) di schermare la gravità (interrompendo il flusso di gravitoni che collega due porzioni di materia) e poi agire sulla massa senza peso per muoverla più agevolmente. All'atto della costruzione dei primi 5 esemplari, 2025, il problema rimase in sospeso; la soluzione, la scoperta del quale principio portò all'assegnazione del nobel per la fisica 2044, arrivò nel 2039 grazie ad un giovanissimo genio, il 16enne Chandra Crishsnamurti, che riuscì a dimostrare che era possibile creare degli accumuli di gravitoni anche senza la presenza di massa solida: era stata scoperta la massa virtuale. Si era scoperto, con dei rilevatori di onde gravitazionali estremamente sensibili, che le reazioni nucleari oltre che generare energia, generavano flussi di gravitoni, grazie al fatto che la massa che veniva trasformata in energia non “intrappolava” più i gravitoni, che quindi vagavano liberi fino a che non venivano incorporati da altre porzioni di massa solida; capito questo si trattava “solo” di sapere come manipolare queste masse virtuali; ancora una volta la soluzione venne fuori in maniera del tutto casuale; la ricerca tecnologica era andata avanti parallelamente a quella scientifica e questa aveva permesso la scoperta di molte nuove interessanti caratteristiche dell'Universo; quegli stessi rilevatori di gravità che avevano permesso l'individuazione della materia virtuale, avevano anche permesso di capire come poterla maneggiare: se masse gravitazionali molto grandi (galassie o grossi agglomerati di materia) potevano curvare la luce quasi come grandi telescopi, magari era possibile (a scale più ridotte) che la luce potesse anche circoscrivere zone in cui sarebbe potuto essere possibile confinare gravitoni liberi; i primi esperimenti in questo senso furono incoraggianti: fasci laser a frequenze elevatissime (fino alla banda gamma) venivano fatti circolare all'interno di sfere concave, al cui interno degli specchi di purezza estrema permettevano la circolazione della luce in maniera che si formasse praticamente una sfera di luce di intensità spaventosa; nel giro di pochi istanti il gioco di riflessioni saturava la sfera (che diventava completamente chiusa) e non rimaneva nessuno spiraglio che potesse consentire il benché minimo varco; a quel punto i gravitoni generati dalla trasformazione radioattiva di masse di plutonio arricchito, rimanevano all'interno della sfera di luce, accumulandosi sempre di più fino a formare una massa gravitazionale virtuale libera da materia; il passo successivo era quello di verificare la possibilità che quella massa potesse sopravvivere anche lasciata libera dalla sfera luminosa; inizialmente i gravitoni si disperdevano, ma fu chiaro che la soluzione era nel raggiungere una massa critica tale da creare una velocità di fuga che potesse contenere i gravitoni e creare quindi una piccola deformazione spaziale; trovata la misura giusta, equivalente alla massa di una piccola luna, la massa gravitazionale rimaneva stabile ma comunque l'unica possibilità di gestirla era quella di spostarla tramite la sfera luminosa: dove andava la sfera, andava la massa gravitazionale. Ma non solo: se si creava un condotto (tramite fibre ottiche dalla riflessione perfetta, onde evitare dispersioni) che collegasse due sfere luminose, contenenti ognuna una massa virtuale, era possibile, aprendo con intensità variabile il passaggio fra le due sfere, manipolare l'interazione fra le due sfere (di cui una posta all'interno dell'astronave, l'altra all'esterno), per allontanarle o avvicinarle. L'applicazione a fini propulsivi era quella di opporre la gravità delle masse virtuali a quella del pianeta da cui si doveva partire, calibrando la distanza delle masse virtuali rispetto all'astronave, per il principio che due masse si attraggono in base ad una forza proporzionalmente inversa alla loro distanza relativa e cioè più sono vicine, più la forza dell'attrazione è maggiore, quindi mettere una massa virtuale molto vicina ad una astronave poteva compensare l'attrazione gravitazionale, per esempio, della terra e rendere il decollo estremamente facile: una piccola spinta avrebbe consentito di superare l'inerzia della massa e di arrivare in orbita, da dove era poi possibile attivare i motori interplanetari. Manovrando le posizioni relative (distanza reciproca e angolo rispetto all'astronave) delle due sfere gravitazionali si otteneva un vettore che dava la direzione del movimento.
Solo grazie a questa tecnologia fu possibile evacuare la Luna, avendo così poco preavviso; i vecchi sistemi a pro­pulsione chimica avrebbero richiesto settimane per l'allesti­mento dei razzi (o shuttle), per il rifornimento del propellente ed in quel caso tanto sarebbe valso mettersi comodi ed aspettare la fine; purtroppo il panico è il fratello isterico della paura (la quale ci permette di mantenere uno stato di allerta, utilissimo a schivare i rischi maggiori) e crea un'agitazione anche più pericolosa del pericolo che cerca di allontanare; dei 1962 ricercatori, impiegati, operai, militari e turisti pre­senti sulla Luna al momento che venne comunicata l'eva­cuazione, riuscirono a salvarsi solo in 1712: due navette si schiantarono fra di loro uccidendone 200; gli altri subirono una serie di incidenti tra cui infarti, calpestamenti, decom­pressioni (tute di trasferimento mal indossate e un'intera se­zione nei pressi del portello di trasferimento di emergenza); di due di queste morti c'era stato il sospetto che non fossero state accidentali, ma non si saprà mai, dato che le prove sono andate distrutte con l'ipotetica scena del crimine.


Mancavano circa due ore all'appuntamento con la minacciata distruzione della Luna da parte di Rudy e mi sta­vo giusto organizzando per il mio piano. L'idea era quella di essere quanto più vicino a Rudy per carpire, se possibile, i suoi pensieri e cercare di comunicare con il drago bianco; sarei salito su uno dei nuovi shuttle (erano la versione 7 del­lo shuttle modulare, appena messi in produzione), in versione militare; scoprii che non avevo inventato nulla ma semmai reinventato, quando mi trovai difronte un emettitore di neutroni 100 volte più potente di quello che avevo usato contro Rudy e che doveva la sua incredibile potenza all'essere collegato ad un terzo generatore nucleare apposi­to; questo era stato installato nella sezione centrale, pesantemente corazzata e schermata, ospitante anche 25 moduli di assalto tattico (vale a dire capsule eiettabili, che ospitavano un membro del corpo speciale di élite dell'ONU, che potevano essere sparati, letteralmente, in zona di com­battimento), ma che per l'occasione sarebbero rimasti vuoti ed inutilizzati, salvo che fosse stato necessario scappare in tutta fretta; il pilota sarebbe stato un capitano di aviazione, Robert McNamara, assistito dal tenente Nicolle Rossi; il ma­novratore del cannone sarei stato io, per mia espressa richiesta: volevo avere il dito sul grilletto mentre cercavo di mettere nel sacco Rudy, sia per immediata difesa che per deterrente (se mai una cosa del genere fosse stata possibile con un essere che si riteneva, almeno relativamente a noi, un dio).
Il piano nella sua logica era semplice: appena Rudy fosse apparso, ci saremmo avvicinati con la navetta, così che l'eventuale comunicazione telepatica con il drago bianco potesse essere il più forte e stabile possibile; avrei tentato di far intervenire il drago bianco contro Rudy o quantomeno avrei cercato di ottenere informazioni utili o per la sua distru­zione o per il suo controllo; mi auguravo di poter ottenere una certa collaborazione senza dover carpire le informazioni di nascosto o senza, al massimo estremo, dovermi inimicare il popolo del drago bianco, uccidendo Rudy con il cannone neutronico, perché se uno di loro poteva devastare orribil­mente la Terra come aveva fatto Rudy, non volevo neanche pensare a cosa avrebbero potuto fare molti draghi uniti in­sieme per vendicare uno di loro, maligno, ma sempre appartenente alla loro razza.
11:59, eravamo in volo stazionario sulla verticale del palazzo dell'ONU; uno spostamento d'aria e una macchia di nero si aprì nel cielo e la forma di quel maledetto drago ros­so cominciò ad emergere da chissà dove, a cominciare dalla testa, dritta davanti a me e verso di me, come se sapesse esattamente dove mi trovassi; finì di “passare”, si fermò, guardandomi dritto negli occhi; il suo muso non poteva crea­re espressioni, ma più i secondi passavano, più avevo come la sensazione che mi stesse sorridendo sarcasticamente e infatti dopo qualche altro secondo se ne venne fuori con un tono nettamente diverso da quello che aveva tenuto la prima volta che mi aveva rivolto i suoi pensieri: --fai quello che sei venuto a fare, non mi opporrò, ma ti avviso, neanche i Ge­saz hanno potuto niente contro di me e sai perfettamente che erano immensamente più avanzati di voi... quando vuoi--. Ero esterrefatto; aveva abbandonato completamente la finzione di essere una sorta di divinità, sapeva esattamente cosa volevo fare e mi parlava con una confidenza che non avrei mai immaginato; ero lì per fare una cosa: tirai il grilletto dell'arma che avevo tra le mani; il raggio neutronico scaturì con tutta la sua potenza colpendo direttamente Rudy sul petto; il bagliore era perfino più intenso di quello del sole in quel momento e nonostante gli occhiali protettivi che indossavo, estremamente scuri, e tenendo gli occhi strizzati, non riuscivo a distinguere che la sagoma di Rudy e il fluire del raggio neutronico sul suo corpo; provai allora a opporre un mio dito a quel diluvio di luce, mascherando il meglio possibile la forma, immobile, del drago, esattamente come si fa con il sole con i coronografi che coprono il disco del sole, lasciando visibile la corona; ora vedevo meglio e il livello del mio allarme era diventato elevatissimo, perché si maturava sempre più la consapevolezza che l'attacco con il cannone neutronico non avesse il minimo effetto, giustificando l'atteggiamento condiscendente di Rudy. Lasciai andare il grilletto dell'arma e togliendomi gli occhiali vidi che Rudy era perfettamente integro, maestosamente bello, terribilmente invincibile. Mi era ancora più chiaro che il mio parziale successo sulle sabbie del deserto fosse stato dovuto alla debolezza di Rudy dopo millenni di sforzi per liberarsi dalla gabbia gravitazionale; lo avevo sospettato il giorno prima e ora ne ero certo, mettendomi difronte alla devastante certezza della nostra assoluta impotenza nei confronti di quel mostruoso demone, ma ancora una volta le cose erano destinate a precipitare: --ora tocca a me...-- disse Rudy girandosi verso la debole forma diurna della Luna. La sua procedura di sparo fu breve ma spettacolare: salì per alcune decine di metri, immagino per rimanere visibile, spalancò le sue enormi ali, mettendosi perfettamente difronte al disco pieno del sole, sembrando diventare più grande (ma in realtà distendendosi in tutta la sua enormità), tirò indietro la testa ed emise, contemporaneamente, il suo urlo di battaglia ed un raggio rosso (sempre dal corno frontale) che sembrava solido per quanto era concentrato; il suo stesso urlo era immensamente più forte di quando lo avevo più volte udito nel deserto e se solo fosse stato diretto nella nostra direzione avrebbe potuto spazzarci via; tutto questo stava a dimostrare che ora Rudy era in perfetta forma, ma la massima conferma venne dalla Luna che venne sbriciolata e ridotta in polvere atomica, non appena venne colpita dal raggio rosso. Non avevo certo contato i secondi, ma non credo che ne fossero passati più di dieci.

1 Anche noi abbiamo avuto un idea simile agli Atlantidei, ma il risultato è un pochino diverso...

2 Le cariche si respingono quando sono uguali e si attraggono quando sono diverse.

mercoledì 10 aprile 2013

ADE - PRIMA PARTE




Da quando la storia viene registrata, oralmente o vo­calmente, sappiamo che in ogni tempo e in ogni luogo, tutte le culture e tutte le civiltà hanno sempre raffigurato almeno una parte dell'altro mondo come un posto dove espiare i peccati della vita vissuta in questo. Ogni raffigurazione mo­stra demoni o mostri che seviziano, torturano, puniscono i rei. Spesso (come nella raffigurazione cristiana) i diavoli pre­posti a questo mestiere sono di colore rosso acceso, hanno le corna, la coda a punta di freccia e occhi come tizzoni ar­denti. Hanno anche ali membranose come quelle dei pipi­strelli e volano minacciosi sopra le teste delle anime danna­te. Quelli più grandi a prima vista sembrano dei draghi. Già, i draghi. Anche loro compaiono in ogni mito di ogni civiltà o religione di ogni parte del mondo. E' un mistero come siano diffusi tra popoli che (per quanto se ne sappia) non si sono mai incontrati, tra cui non ci sono mai stati contatti. Eppure in tutto il mondo ed in tutte le epoche, tutti conoscono storie di draghi, con o senza ali, a due o quattro zampe o anche senza zampe ma con le ali. Sono di vari colori, verdi, neri, blu e ovviamente rossi. Ma tutti, invariabilmente sputano fuoco. Ce ne sono anche di buoni e saggi (così come esiste anche il paradiso o un qualsiasi luogo dove dopo la morte i giusti riposano), ma nella maggioranza dei casi i draghi por­tano morte e distruzione, le peggiori immaginabili. Si può morire in innumerevoli maniere e nessuna piacevole, ma quando una bestia enorme, terrificante e terribile, prima in­cenerisce tutto quello che ti circonda e poi, per completare l'opera, incenerisce te, l'orrore, anche al solo pensiero, è as­soluto. Non uccide, ma annienta, cancella.

Il concetto di male e punizione, bene e ricompensa sono necessariamente universali, perché gli esseri umani li hanno radicati nel proprio codice genetico, etico e culturale e sono quindi indissolubili dalla coscienza umana, ma quan­do si tratta di dare forma al male, all'orrore, alla devastazio­ne sarebbe lecito aspettarsi che culture diverse, lontane le une dalle altre, immerse in ambienti naturali e quindi che co­noscono animali predatori diversi (Africa, leoni; Asia, tigri; Europa, lupi; America del Nord, orsi; ecc.), traggano spunto, magari esagerandone i caratteri, da ciò che avevano difronte nella loro esperienza comune e spesso questo av­viene. Ma ancora una volta i draghi li conoscono tutti...

Non esistono reperti fossili di niente che potrebbe far pensare ad un drago, ma ogni mito che ne parla afferma sempre che sono molto rari e quindi le prove potrebbero an­che esistere ma non essere state trovate; meglio ancora, potrebbero non esistere reperti fossili, visto che il fenomeno della fossilizzazione è di per sé rarissimo e, tanto per fare un esempio, solo la diffusione globale dei dinosauri (miliardi e miliardi devono aver abitato la terra nelle centinaia di milio­ni di anni del loro dominio) ha permesso che qualche miglia­io di fossili si formassero e arrivassero fino a noi.

Quindi per buona pace e tranquillità di tutti, la be­stia delle bestie (come è stata definita nel medioevo euro­peo), viene, nei tempi più moderni meno avvezzi alle fanta­sie mitiche, definita un mito irreale.

Questo è quello che è stato detto fino ad una pri­mavera del 2125.



Bella giornata, piena di promesse”. Non c'era mai stato niente che potesse fargli sembrare brutta una giornata all'aria aperta, neanche 40 gradi all'ombra, sotto un sole im­placabile come quello che ci martellava ormai da 15 giorni. Ma in fondo lo capivo; pur con qualche sofferenza in più, an­che a me piaceva stare all'aria aperta e ho sempre concor­dato con Chris che il nostro era il più bel lavoro del mondo. L'archeologia è sempre stata una attività dura e difficile: la­voro sul campo, spesso in condizioni disagevoli, per non dire pericolose; tanto per fare un esempio, ricordo quella volta, che essendo riusciti ad ottenere il finanziamento per degli scavi in Persia, finimmo direttamente in mezzo al con­flitto tra Nuovo Impero Persiano e Repubblica Israeliana, e solo diplomazia, tantissima fortuna e un “pizzico” di faccia tosta, nel far credere e raccontare che gli scavi avrebbero “certamente riportato alla luce la gloria dell'Antico Impero Persiano”, ci fecero evitare guai molto seri (ero amico perso­nale del generale israeliano e questo risolse l'altra metà del problema).

Ma il fascino delle civiltà scomparse o addirittura sco­nosciute, con tutto il corollario di storie, leggende e misteri mi aveva accompagnato fin da quando, da bambino, comin­ciai a sentir parlare, nelle lezioni di Storia, dei vari popoli an­tichi.

“Paolo, che ne diresti di darti una svegliata e venire a darmi una mano?”. Potrebbe sembrare una domanda, ma in realtà era un'ordine e piuttosto stringente; non ero mai riu­scito a far capire a Chris che non tutti, appena svegli, pote­vano avere o, semplicemente voler avere, la reattività tipica di una condizione di 'allarme rosso', (cioè dito sul pulsante di lancio di ogni e qualsiasi arma nucleare strategica e sangue completamente sostituito dall'adrenalina), quindi, con calma olimpica, ignorandola accuratamente, finii il mio 'sacro' caffè, mi alzai e dopo aver raggiunto Chris, usai la mia considerevole forza per farla girare su se stessa, la guardai nei suoi splendidi occhi verdi e, prima che protestasse offesa, la baciai, in quella maniera, dolce e intensa, che la aveva fatta innamorare di me e che le toglieva qualsiasi capacità di reazione. Io sono sul metro e ottanta, ma mi sono sempre tenuto in forma allenandomi con i pesi e perciò supero di un “pochino” i 100 kg di muscoli ben definiti; lei è una bambolina di un metro e cinquantacinque, in forma e robusta, che però non supera i 55 kg, ma la sua ira è leggendaria e non c'è deterrente fisico che possa impressionarla; per fortuna io sono un orsacchiotto indistruttibile e la mia calma e dolcezza trovano sempre qualche varco in quel carattere di titanio.

“Buongiorno amore”, proseguii. “Si, è una splendi­da giornata; un filino troppo calda, mia Regina degli Inferi e Angelo del Paradiso, ma tant'è...”. La chiamo così dalla mat­tina della nostra prima notte insieme. In quell'occasione mi guardò con aria divertita, le era chiaro che ero cotto come un pollo alla diavola, ma era anche conscia che non parlavo a vanvera e quella colorita definizione doveva pur avere un senso. “Cosa intendi dire, esattamente, Paolo?”; avrei impa­rato che le sue domande dovevano sempre avere una rispo­sta. La più precisa possibile. La guardai sorridendo: “hai un corpo di una bellezza demoniaca, che adoro, amo e sempre desidero, e il tuo viso è l'essenza della beatitudine angelica; quando mi strilli dietro, con la tua dolce voce, come testimo­niano i notevolissimi danni a finestre e intonaci delle mura di tutto il campus, un terrore infernale pervade ogni persona, me escluso, ma la tua dolcezza mi rende un beato demente”. Mi abbracciò quanto più stretto le fu possibile e quando si allontanò, piangeva, felice. Avevo usato quella che io definisco “esagerazione metaforica”, facendo il cretino, ma confessando il mio amore. Avevo detto che non era perfetta, ma che proprio questo suo incredibile mix mi aveva fatto impazzire.

Lei è Christine e l'ho conosciuta il primo giorno che sono arrivato a prendere la mia camera al Marshall College (Connecticut, USA). Si. Avete capito bene: lo stesso dove Sir Indiana Jones insegnò e di cui divenne rettore fino alla sua morte. Avevamo vinto entrambi la borsa di studio in pa­lio per quell'anno (era il 2110), ed il nostro fu un caso straor­dinario perché la borsa di studio era sempre stata inderoga­bilmente una sola. La motivazione che il consiglio esamina­tore diede al Rettore per convincerlo a quella doppia spesa (e lui non ebbe niente da obiettare, pur con una evidente nota di dolore nei suoi occhi neri e sinceri) fu che entrambi, con il solo ausilio di strumenti satellitari (io) e con l'utilizzo di tecniche di analisi neutrinica (Chris), eravamo stati in grado di “apportare significativi contributi ed avanzamenti alla scienza archeologica, tramite una innovativo uso dei mezzi di analisi più avanzati”. La sterilità della motivazione nascon­de, in prima battuta, delle enormi conseguenze, in tutti i sen­si. Nel mio caso si era trattato, grazie alla collaborazione di un direttore di dipartimento della NASA e con l'uso di tempo macchina di un satellite per l'analisi geologica, di rintracciare l'ubicazione di Atlantide, e nel caso di Christine nell'essere stata in grado di dimostrare che la Sindone era, in un certo qual modo, autentica e che la sua creazione aveva richiesto una manipolazione a li­vello quantistico, che aveva modificato la struttura stessa della materia. La data della distruzione di Atlantide e della creazione della Sindone coincidevano. Avevamo anche però dimostrato che la Sindone non aveva niente a che fare con la morte di Gesù di Nazareth, pur non essendo un falso me­dievale. Il nostro corso di studi consistette nell'analizzare e comprendere le implicazioni di questi fatti; dato che dei test preliminari dimostrarono la nostra competenza nel settore, passammo direttamente dallo status di dilettanti di grande genio a quello di massimi esperti e studiosi della storia della prima civiltà umana (o almeno terrestre) e dei motivi che avevano causato la sua completa distruzione. Furono 15 anni intensi e fantastici.

Eravamo in pieno deserto del Sahara, dove aveva­mo rintracciato una colonia Atlantidea. Era una città che se la struttura poteva essere confrontata con quella delle nostre città più grandi (altezza media 10-12 piani) aveva ospitato al­meno 5 milioni di abitanti. Era la meglio conservata delle 7 che fino a quel momento avevamo scoperto. Ci stava vera­mente creando dei problemi, perché non c'era una data del­la storia nota fino ad allora che avesse riscontri con le data­zioni che ora stavamo riscontrando. Si può dire che ogni giorno portava una rivoluzione. Atlantide è stata distrutta al­meno un milione di anni fa (altro che 10-12 mila!). Quindi: 1) la civiltà umana (se, come sembrava, gli atlantidei erano umani) e, forse, anche la stessa razza (Homo Sapiens sa­piens) erano mooolto più vecchie; la Sindone analizzata da Chris aveva anche rivelato che la persona impressa nel telo di lino era solo apparentemente umana ma leggermente di­versa, che Chris stessa aveva provvisoriamente chiamato i Super Sapiens, quindi forse un Atlantideo; 2) qualcosa di immensamente potente aveva fatto tabula rasa degli atlanti­dei sulla Terra, perché la loro scomparsa era stata istanta­nea e contemporanea su tutto il pianeta, ed era evidente che essi erano almeno 10.000 anni più avanzati di noi.

Quella mattina era in programma l'apertura di una camera ad uno dei livelli più bassi della zona che avevamo definito “Ricerca e Sviluppo Atlantidea” (ReSA), nella quale zona, era ormai evidente, gli Atlantidei, o come Chris li ave­va ribattezzati (Chris aveva il pallino per dare i nomi alle cose nuove, creando spesso degli arguti acronimi), gli Dei Atlantici e quindi “(la) DeA”, avevano installato i laboratori per le più avanzate ri­cerche scientifiche; Chris è una femminista estremista, nel senso che ogni fatto viene interpretato con ottica femminista fino alle sue estreme conseguenze. Le donne influenzano gli uomini e quindi, de facto, governano il mondo, e chi se ne frega se, ammetto la colpa e la vergogna, esse sono sempre state maltrattate, sottomesse, ingiuriate ed accettate in certi ruoli solo come estreme eccezioni, peraltro di como­do; l'estremismo, a farsi intimorire, si manifesta nella minaccia fisica vera e propria, difronte alla non assolu­ta concordanza nei confronti dei pareri espressi da Chris. Ho personalmente assistito ad un litigio tra Chris e una sua compagna di studi. L'altra sosteneva che il ruolo della don­na, anche se istruita ed intelligente, è “per natura” sottomes­so a quello dell'uomo, più forte, coraggioso e via così banaleggiando. Solo il mio istinto ha evitato lesioni gravi a quella povera ingenua: mi sono messo in movimento reagendo di riflesso e ho intercet­tato il bicchiere lanciato da Chris a meno di due centimetri dalla testa dell'altra. Poi, ho preso da parte Chris e l'ho fatta piangere. Ometto, per decenza, quello che le ho detto.

Raggiungemmo il portale che ci teneva impegnati da giorni, con il suo sistema codificato di sicurezza e che, non riuscendo assolutamente a decifrare, avevamo deciso di forzare, tagliando parte della sezione centrale dell'anta di sinistra. Sospettavamo che la violazione del sistema di sicu­rezza potesse essere pericolosa e di conseguenza erano state approntate tutte le accortezze del caso: il laser neutro­nico da perforazione era stato adattato per un aumento gra­duale della potenza; lo avrei manovrato io (mia la decisione, mia la responsabilità, mio il rischio), in remoto, da dietro una corazzatura di kerbanio (una nuovissima “mistura” tra carbonio, tita­nio omega e kevlar mono-molecolare) in teoria in grado di resistere ad esplosioni nucleari entro il raggio di 500 metri (in quel caso con la necessarie aggiunta di un pannello di piombo iper compresso, per schermare le radiazioni).

“Chris, mi controlli i valori di pre-carica del cannone?”. Mi girai a guardarla (era un centinaio di metri più indietro, nascosta oltre una ulteriore corazzatura, che pro­teggeva anche tutti i sensori). Anche se era lontana, i suoi occhi mi dicevano che era molto spaventata dai rischi di quella situazione, ma la sua voce suonò abbastanza calma nell'auricolare “stand-by a 0.25 G-joule...” mi fu evidente la pausa e quindi seguitai a guardarla “...ti aspetto tutto intero, non fare cazzate.” Le spedii un bacio e lei rispose con il suo migliore sorriso e con gli occhi lucidi. Mentre riflettevo che ancora nessuno era riuscito a capire come fossi riuscito a conquistarla e a sopravvivere (non necessariamente in quest'ordine), mi girai verso la macchina, soprannominata il Cannone1, capace di emettere un raggio perfettamente coe­rente di neutroni, fino a potenze equiparabili a quelle del più potente ordigno nucleare mai realizzato, Tsar2, dell'ex Re­pubblica Socialista Sovietica, più sicuro, perché direzionabi­le, ma più letale, per ciò che veniva colpito, per la sua con­centrazione. I neutroni fanno parte del nucleo di ogni atomo noto e sono di carica neutra, molto pesanti e, una volta emessi (sono responsabili delle principali radiazioni nuclea­ri), se colpiscono un altro atomo, possono spaccarlo in due (la nota fissione nucleare). Possono avvenire due cose: nei confronti di materiale molto pesante ed instabile, come il plutonio, la scissione provoca una riemissione di altri neutro­ni, con un effetto a catena incontrollabile e anche devastan­te (come nelle esplosioni nucleari), nel secondo caso l'ato­mo più leggero e/o stabile viene spaccato e quindi la struttu­ra materiale che lo contiene ne viene indebolita. Ecco per­ché è fondamentale sapere quale materiale si sta trattando. Nel nostro caso eravamo relativamente sicuri, perché il por­tone era lì da oltre un milione di anni e sembrava appena ar­rivato dalla fonderia e montato; le analisi preliminari avevano mostrato solo che era un materiale elementare (cioè non era una lega) ultra compatto, molto più di quello che eravamo riusciti ad ottenere noi esseri umani. Il pannello di piombo ultra denso che si abbinava al kerbanio era circa 1.000 volte più denso del piombo naturale. Il portale era di un'ulteriore fattore 1.000 più denso. Avevamo perfino sospettato che si potesse trattare di una forma di neutronio3 artificiale, ma speravamo di no, altrimenti avremmo al massimo potuto renderlo ancora più compatto, aggiungendo neutroni, oppu­re non avremmo ottenuto che uno spettacolare, ma inutile consumo di energia.

Appoggiai le mani sulle due maniglie di controllo; la sinistra aumentava o diminuiva l'ampiezza del raggio; la de­stra aumentava o diminuiva la potenza emessa. Avevo chie­sto di controllare il livello di precarica perché, pur essendo a zero la posizione della manopola (come quella dell'accelera­tore di una moto), se il “minimo” fosse stato troppo alto avrei rischiato di farmi male. Cominciai a girare verso di me la manopola, lasciando alla massima ampiezza il raggio... niente. Brava la DeA: roba molto robusta. Portai al 25% l'ampiezza, senza aumentare la potenza... la porta cominciò a diventare rossa. Andai avanti così (prima la potenza, poi l'ampiezza, a scatti del 5%) per 6 cicli; mi fermai e, afferran­do una mazza di titanio omega da 25 Kg mi avvicinai al por­tone. Sentivo gli sguardi di tutti, ma particolarmente di Chris, su di me, e quando fui a misura, caricai il movimento, por­tando la mazza in alto e indietro, iniziai il movimento compo­nendolo in orizzontale, per la maggior efficacia e... BANG. Miliardi di frantumi volarono dappertutto, in perfetto ordine sparso. Mentre aspettavo che la polverosa nebbiolina che si era creata si posasse, venni raggiunto da Chris, che senza dire una parola mi abbracciò da dietro, stringendomi fortissi­mo; appoggiai le mie mani sulle sue, contro il mio petto, mentre cominciavo ad intravvedere l'interno del laboratorio, dei suoi macchinari e... dell'immensa sezione di sfera al suo centro, che presupponeva una camera sferoidale interrata. “Sarà qualche genere di camera di contenimento”, azzardò Antonio, il nostro più fidato collaboratore e anche amico, che, insieme agli altri del gruppo, si era unito a noi, mentre ci avvicinavamo, più curiosi che prudenti. “Sembra più una gabbia per uccellini”, sentenziò Chris, mentre raggiungeva­mo il bordo della sfera interrata, abbassando il nostro sguar­do verso il basso. L'uccellino in questione era alto almeno 25 metri, aveva ali smisurate, con corna sulla testa affusolata e allungata, era rosso fuoco e bé, era, al di là di ogni ragionevole dubbio, un drago. In stasi, si, in stasi; era una sorta di mantra che mi andai ripetendo ogni singola volta che guardando in basso mi trovavo ad incrociare gli occhi, ma grazie alla DeA, non lo sguardo di quella formidabile bestia. Una tigre in gabbia sai che è pericolosa, ma solo in potenza. Lui mi terrorizzava, anche separato da un materiale praticamente indistruttibile...

Dedicammo l'intera giornata a cercare di capire cosa (il come era un'altra storia) tenesse in sospensione vi­tale Rudy; no, tranquilli, non c'era una targhetta al collo del drago. Simona, una delle laureande più giovani, ci raccontò, che, nel paese in cui era cresciuta, era vissuto un dobermann con quel nome e con quegli stessi occhi, che uccideva qua­lunque cosa respirasse che non fossero i suoi padroni, ma che, era opinione comune, fossero solo tollerati perché era molto più semplice ottenere cibo e riparo così che non da soli. Rudy era stato abbattuto quando un bambino era stato aggredito, e quasi ucciso, per il solo fatto di essere passato davanti a casa dei suoi “padroni” subito prima dell'ora di cena. In quel paese, l'ora della cena per i cani era stata anti­cipata di 3 ore ed era stata aggiunta una SECONDA cena, non tanto perché le persone avessero semplicemente paura dei cani che sono compagni dell'uomo (ma anche della don­na) da millenni, ma in particolare perché Rudy aveva un hobby: ogni singolo cane femmina aveva ricevuto le sue visi­te sessuali e non aveva mai rifiutato di accondiscendere (chissà, forse il solito fascino dei “cattivi ragazzi”); quindi, in giro, c'erano molti eredi di Rudy accertati e non: risultato di quell'aumento alimentare fu un pandemico e vertiginoso au­mento di malattie cardiovascolari per obesità canina e con­seguenti ricorrenti morti premature di molti amici canini. Rudy era assolutamente il nome giusto. Anche da morto era letale.

Fu presto evidente che ogni singolo apparato di quel laboratorio collaborasse a ottenere e mantenere la sta­si, il tutto alimentato da un generatore di energia ad antima­teria (ancora una volta brava la DeA) che, dai primi calcoli effettuati e al tasso di consumo attuale, aveva scorte per cir­ca altri 5 milioni di anni (!).

“Sembra che abbiano cercato di dare il tempo, a chi fosse venuto dopo, di arrivare ad un livello tecnologico sufficiente a trovare una soluzione definitiva al problema drago”; Chris, mi guardava mentre esprimevo questa consi­derazione iniziale; si mise in bocca un pezzo di panino al tonno (cena semplice, quella sera), masticò e ingoiò con un sorso di vino rosso. Aggiunse: “vorrebbe dire che erano pra­ticamente certi della loro distruzione”; seguii la sua stessa procedura alimentare, vino a parte (non bevo schifezze; pre­ferisco un'edulcorata, sintetica bevanda, genere cola, che un orribile alcolico, non avendo acqua a disposizione): “ergo non possiamo considerare Rudy un'animale pericoloso qual­siasi, altrimenti basterebbe una fucilata, con un fucile bello grosso, per abbattere l'uccellino”; cadde nuovamente il si­lenzio, ma non durò a lungo. Antonio entrò nella saletta che avevamo requisito come refettorio urlando: “Chris, Chris, Rudy sta ballando!”; Antonio senza nominarmi si girò verso di me, ma io lo stavo già superando in direzione Rudy, se­guito da Chris a due passi.

Ci fermammo davanti alla gabbia (in realtà compo­sta da un materiale trasparente di resistenza circa pari a quella della porta, ma in quel momento di composizione ignota). Il movimento era continuo, seppur lentissimo. “Anto­nio, voglio vedere le riprese della videocamera 17”; avevamo piazzato, già dalla mattina una videocamera su Rudy, che altrimenti era invisibile dal resto della sala. Raggiungemmo il sistema di videosorveglianza e un sospetto mi raggelò il sangue; era già da alcune ore che una strana vibrazione si faceva sentire, ma quello era un posto dai numerosi misteri e Rudy aveva assorbito tutta la mia attenzione. Ora girai istintivamente gli occhi verso gli indicatori dell'assorbimento energetico (10 quadranti circolari, in serie, che indicavano i 10 reattori che fornivano l'energia al sistema), erano tutti a fondo scala; l'energia emessa in quelle condizioni ogni mi­nuto, avrebbe alimentato l'intera Terra per un mese; quando eravamo entrati, quella stessa mattina, 12 ore prima, l'assor­bimento era a malapena del 0,1%; il puzzle si stava compo­nendo davanti ai miei occhi; il tassello finale furono le imma­gini registrate e accelerate della videocamera: Rudy si stavo dimenando e questo aveva costretto il sistema di controllo della stasi ad aumentare l'emissione e quindi il consumo di energia. “Sta cercando di liberarsi”, dissi io; “si, cercando di consumare tutta l'antimateria”, aggiunse Chris. Era calata una coperta gelata su tutti noi. Una domanda era sospesa nell'aria: quanto rimaneva prima che Rudy potesse liberarsi? “Dai tre, ai sei mesi, se non dovesse fermarsi mai”; Antonio aveva risposto per tutti e il gelo divenne paura e malcelato panico. La situazione andò peggiorando con imbarazzante regolarità e tempismo, via via che i nostri studi sul sistema di stasi facevano progressi.

La mattina successiva, dopo una notte quasi inson­ne, eravamo immersi in una nebbia di confusione e acuta preoccupazione. Nessuno di noi si era mai trovato in condi­zioni così estreme; il massimo che può capitare nel nostro lavoro (escludendo rischi esterni come le guerre nelle zone in cui ci si trovava ad operare) è finire sotto ad un crollo di macerie antiche di millenni, non che qualcosa di infinitamente distruttivo risorga da un passato devastato per mettere in scena il secondo atto. I reperti fossili di animali estinti, in genere, se ne stanno buoni buoni a farsi studiare, restando estinti e non cercando di liberarsi per ucciderti.

Ci avviammo al laboratorio. Ci venne incontro Si­mona, per ragguagliarci. “Buongiorno, ragazzi. Prima noti­zia: Rudy si è calmato, ed è tranquillo da un paio di ore. Se­conda notizia, abbiamo installato il programma che calcolerà in tempo reale consumo e durata dell'energia -M (l'antimate­ria). E poi credo di aver capito come funziona il campo di stasi”. La stavamo guardando tutti in attesa; ci era stata rac­comandata come genio assoluto della fisica e della matema­tica ad essa connessa e forse erano stati perfino prudenti.

“La vibrazione che sentiamo da ieri pomeriggio...” annuii fra me e me “...dovrebbe essere dovuta alla riattiva­zione dell'acceleratore che produce i gravitoni che sono la fonte del campo di stasi...” bocche aperte, sopracciglia alza­te “...e che circolano in un'intercapedine della gabbia, crean­do un campo gravitazionale, focalizzato verso il centro, che, come ci disse il signor Albert Einstein, rallenta il flusso tem­porale proporzionalmente alla sua stessa intensità. In defini­tiva, una stella di neutroni sferica artificiale.”

Come dissero gli Antichi, di necessità, virtù. Per cercare di tenere sotto controllo una cosa altrimenti incon­trollabile ed indistruttibile, gli atlantidei si erano dovuti inven­tare una cosa realmente incredibile. Questo, ancora una vol­ta ci rimetteva difronte alle dimensioni del problema “Rudy”. Quale essere vivente può spaventare una civiltà così avan­zata e potente, e pure una volta limitate le sue possibilità di azione, riuscire anche a contrastare ciò che lo limita? O me­glio, avere capito, che per riuscire a liberarsi, doveva au­mentare il consumo energetico di un campo di stasi che si­mulava una stella di neutroni, riuscendo a muovere il proprio corpo contro un campo gravitazionale, che in natura era una delle forze più grandi conosciute? Mi veniva in mente una sola definizione: Demone.

Rimanemmo nel laboratorio tutta la giornata a con­trollare le azioni di Rudy e a cercare di capire il da farsi; in ogni caso le nostre azioni era vincolate dalle azioni di Rudy e dalla nostra limitata conoscenza della tecnologia e delle conoscenze atlantidee. Ma con il passare del tempo impa­rammo alcune cose. Simona si era resa conto che, in defini­tiva, ogni sistema tecnologico risponde agli stessi criteri e necessità. Misurare ed indicare le misure; accendere e spe­gnere; regolare l'intensità degli interventi. Quindi si trattava di capire come gli atlantidei avessero reso i controlli.

“Vedi Paolo...” mi stava spiegando Simona, indican­do su un d-pad l'immagine digitale dei sistemi di controllo “...questo selettore apre il circuito che immette l'energia pro­veniente dalla reazione materia–antimateria...” la interruppi “scusa, Simona, ma se non sbaglio la reazione materia–an­timateria è caldina...”. Capendo al volo Simona ampliò la spiegazione: “hai ragione. La reazione crea un flusso di foto­ni immensamente energetico, oltre che a temperature di mi­lioni di gradi, che prima viene “raffreddato” tramite dei laser che ne polarizzano e rallentano il movimento e che poi viene indirizzato verso le bobine raffreddate quasi allo zero asso­luto, che è di -273,15, e cioè a -273,05; come sai la resisten­za elettrica viene quasi annullata per via del manifestarsi dell'effetto di superconduttività, quindi l'energia non va spre­cata minimamente e l'acceleratore ha una resa inimmagina­bile per le nostre tecnologie attuali. Alla fine, le collisioni tra le particelle creano una super densità paragonabile a quella presente nella materia collassata di un buco nero, che rilascia gravitoni, poi incanalati verso la gabbia da due direzioni diverse; così nell'intercapedine della gabbia si crea un reticolo gravitazionale che simula un enorme campo gravitazionale interno, che ottiene due scopi: tempo rallentato e gravità quasi infinita.” Mi guardò per cercare segnali di comprensione. Le diedi la massima soddisfazione possibile: una domanda sensata. “Ma se la gravità è praticamente infinita come si spiega che Rudy non viene 'spalmato' a terra?”. Mi sorrise, come se fosse stata sicura di avere un buon allievo che era semplicemente necessario indirizzare: “Il reticolo che si forma dalla circolazione dei gravitoni ha forma sferica e quindi, siccome i gravitoni hanno carica uguale fra loro, e le cariche uguali si respingono, formano un campo gravitazionale con direzione verso il centro della gabbia, così come fa uno specchio sferico o emisferico: dirige la luce verso il centro; o, se preferisci, la forma sferica del reticolo gravitazionale fa si che i vettori del campo che così viene a crearsi convergano al centro; solo che questo campo non è puntiforme come quello di un buco nero ma de-localizzato e questo grazie alla circolazione continua, a velocità prossime a quelle della luce, dei gravitoni che spostano continuamente i vettori di campo gravitazionali. In definitiva, all'interno della gabbia, in ogni punto la gravità è uguale a qualsiasi altro punto e quindi ogni atomo di Rudy è imprigionato da un campo gravitazionale equivalente a quello di un mini buco nero.” Mi guardò di nuovo, ma i suoi occhi questa volta esprimevano nervosismo e disappunto. Un segnale di chiamata dall'interfono ci interruppe proprio mentre Simona finiva la sua relazione: era Antonio, che, con perfetto tempismo, espresse i motivi di quel disappunto. “Rudy si sta agitando di nuovo”. Il quadro definitivo era che Rudy riusciva a muoversi immerso in un campo gravitazionale quasi infinito, dicendoci che aveva a disposizione risorse energetiche inimmaginabili. Sia io che Simona ci alzammo, sconsolati. E' stata l'ultima volta che ho visto Simona viva.



Un boato immenso scosse tutto intorno a noi e ini­ziarono a crollare pareti, soffitti, mobili, attrezzature. Mi ritro­vai semi sepolto da ogni sorta di rottame. Tentai di liberarmi, ma il primo sforzo compiuto fu vano; ero leggermente stordi­to e il peso dei detriti che mi era caduto addosso era rilevan­te. Ora sembrava tutto finito, anche se in lontananza si sen­tivano ancora dei rumori presumibilmente di crolli. Non ve­devo niente, tra la polvere ancora sospesa in aria e quella che intasava i miei occhi. Mi concentrai e feci un nuovo ten­tativo per liberarmi. Questa volta ebbi successo; ero stato fortunato, perché un pannello della copertura del soffitto aveva impedito che dei grossi blocchi di cemento (o quello che sembrava essere tale, nonostante fosse decisamente più robusto del tipico cemento da costruzione umano), mi fa­cessero veramente del male. Una volta in piedi cercai di guardarmi intorno per capire quale fosse la situazione. Era una vera catastrofe a cui per il momento non sapevo dare una spiegazione. Una voce familiare mi chiamò; mi girai in tempo per essere assalito da Chris che mi abbracciò e mi strinse. Per un lungo istante nessuno dei due parlò, felici di essere insieme e vivi. “Sai cosa è successo?” domandai a Chris che sapevo essere anche lei lì intorno, mentre stavo parlando con Simona. “No, Paolo, ma credo che sia saltata qualche linea ad altissima tensione. Mi è sembrato di vedere un lampo elettrico nella sala laser... forse si è surriscaldata la Linea 1, si è fuso l'isolante e un arco elettrico ad alta tensione ha incendiato qualche sostanza instabile e patatrack. Ma possiamo chiedere a Simona di venire a vedere per dirci la sua opinione. Nonostante i crolli la struttura regge...”. Successivamente Chris mi raccontò che sbiancai e sgranai gli occhi. Mi iniziò a girare la testa, ma non stavo per svenire a causa dello choc ma le parole di Chris mi avevano ricordato la presenza di Simona. Chris si era resa conto che qualcosa mi aveva spaventato e non era la distruzione che ci circondava. “Che c'è Paolo?”. “Simona era qui con me...”, risposi; cominciai a girare la testa dappertutto e a guardare in giro con i miei occhi che bruciavano, cercando di ricordare dove era Simona rispetto alla mia posizione. Anche Chris stava facendo la stessa cosa. Fu lei a trovare Simona; “Paolo vieni qui, presto” si chinò su quello che sarebbe sembrato solo un cumulo di macerie, ma mentre iniziava a scavare con le sue mani, vidi cosa l'aveva messa sulla giusta pista: la mano dove Simona portava il braccialetto di platino che suo padre, il suo amatissimo padre, le aveva regalato il giorno del diploma, tre anni prima. C'erano scritte poche parole, ma che esprimevano tutto l'amore e l'orgoglio di un padre per l'unica figlia: “Alla mia bambina, per sempre. Il futuro è tuo. Papà”. In pochi istanti la liberammo dalle macerie, ma già lo sapevo. La presi tra le braccia e le pulii lo splendido viso. Chissà perché, in momenti come questi, si riesce a pensare solo che una persona era bellissima e giovane e non che la perdita potesse essere anche la brillante intelligenza. I miei motivi erano strettamente personali e derivavano dai miei sentimenti per lei.

Il suo viso non aveva neanche un graffio, ma un grosso pezzo di soffitto le aveva schiacciato il petto ucciden­dola praticamente sul colpo; non aveva avuto la mia stessa fortuna: il pannello che aveva riparato me non era stato sufficiente a salvare lei. Il suo maglioncino copriva i danni e solo il sangue ne rivelava la gravità. La guardavo e piangevo. Avevo promesso a suo padre, che dopo la morte di sua madre per un incidente di macchina aveva solo la sua bambina, che l'avrei protetta da ogni pericolo. L'avevo così virtualmente adottata e mi ero affezionato a lei. Era una ragazza dolce e tranquilla, ma vivace e piena di vita quando non si trattava di lavoro; in quel caso diventava un computer quantistico a cui praticamente nulla poteva rimanere ignoto a lungo. Era sempre stato un piacere e anche una gioia avere a che fare con lei. Adesso era morta.


Guardavo Paolo piangere quella ragazza che an­che io avevo imparato ad apprezzare e ad amare e mi sentii infinitamente infelice.

Ormai erano oltre 15 anni che vivevo la mia vita in tutto e per tutto con Paolo e non lo avevo visto così dispera­to in nessuna altra occasione. Simona era entrata nel nostro gruppo di ricerca da appena tre mesi, tre anni prima, e io mi ero ingelosita, facendo una scenata incredibile. Paolo aveva un rapporto speciale con lei; mi aveva raccontato di averla assunta su raccomandazione di Chandra Crishsnamurti, in assoluto uno dei più brillanti premi Nobel per la Fisica della storia umana, e che chiedendo il permesso a suo padre di poterla assumere per gli scavi che erano in programma nel Sahara (in quanto lei era ancora minorenne), si era ritrovato nella condizione di doverla virtualmente adottare. Non sono mai stata incline ad una riflessività sensata e prudente e an­che in quella occasione non persi l'opportunità di mettere alla prova l'amore e la pazienza di Paolo andando molto ol­tre ogni qualunque limite decente. Davanti a tutti e sopratut­to a Simona lo accusai di “desiderare di abbandonarmi per quella bambina tutta curve”, neanche io fossi un manico di scopa, anzi tutt'altro. Simona divenne di una tonalità di ros­so che non credevo un essere umano potesse manifestare, ma che forse era consentita dal suo naturale colore di capel­li. Paolo mi guardò, alzò un sopracciglio, si avvicinò e si mise in piedi difronte a me. Temetti il peggio. Invece mi af­ferrò per le spalle, mi tirò su e mi baciò davanti a tutti. Poi mi rimise giù, a sedere, completamente frastornata e se ne andò. Così mi aveva dichiarato il suo amore, 12 anni prima, dopo 6 mesi di tira e molla da parte mia e non avevo più po­tuto resistere. Ma quella volta era una cosa diversa. Più tardi Simona mi raccontò che avevo assunto anche io una sfuma­tura di rosso veramente spettacolare e io sono bionda. In quel momento riuscii solo a chiederle scusa con un filo di voce e ad andarmene. Fu la seconda volta che il mio com­portamento faceva infuriare Paolo e faceva piangere me. Non sono MAI stata una piagnucolosa, ma rendermi conto di aver deluso Paolo mi faceva quell'effetto. Lui per me è tut­to, è l'unica cosa che veramente conta nella vita e anche solo la più remota possibilità di ritrovarmi senza di lui mi fa perdere ogni controllo, ma questo non deve giustificarmi, mai. Ho imparato presto che Paolo ha un profondo spirito di protezione, definibile come 'Sindrome del Cavaliere', per i piccoli e Simona rientrava sicuramente in quella sfera d'azione. Ma sapevo anche che lui poteva amare solo una persona e quella persona ero io. Ero lì che piangevo la mia stupida impulsività, quando una voce mi riscosse: “non è successo nulla di grave Chris”. Girai la mia testa nella dire­zione di quella vocina. Era Simona. Mi sentii pure peggio, perché stava sorridendo dolcemente. Cercai di recuperare un po' di dignità: “scusami, non ho motivo di essere gelosa di te. Sei un angelo e so che Paolo non mi tradirebbe mai.” In quel momento io ero la bambina e lei la donna adulta; mi asciugò le lacrime e, da brava italiana, mi diede un bacio su una guancia e disse: “vai da lui”. Mi resi conto che indicava con la testa verso l'altro lato del corridoio. C'era Paolo che mi guardava. Corsi verso di lui e lo strinsi con tutta la forza, sapendo di non potergli fare il minimo male. Le sue carezze mi dissero che era tutto a posto. Da quel giorno non potei fare a meno di volere un bene enorme a quella bambina dolcissima (comunque tutta curve, nonostante fosse appena maggiorenne, visto che stavamo appunto festeggiando il suo 18esimo compleanno).



Avevo appoggiato una mano sulla spalla di Paolo, per testimoniare che ero lì, con lui. In casi come questo, si cerca di farsi forza dicendo che il peggio è passato e che ora si doveva solo andare avanti, ma l'Universo aveva in ser­bo per noi altre simpatiche sorprese. In molti hanno visto la scena tratta dal film Frankenstein Junior, di Mel Brooks, nel­la quale il professore Viktor Frankenstin (volendo differen­ziarsi dal suo avo) e il suo aiutante sono intenti a scavare per procurarsi i cadaveri per i loro esperimenti. Ad un certo punto il professore emerge dalla fossa alzando una cassa da morto e sbuffando dichiara: “che lavoro schifoso!”. L'aiu­tante gobbo, con la massima calma e naturalezza, replica: “poteva andare peggio” al ché il Professore replica: “e come?” candidamente Igor (si pronuncia Aigor, mi racco­mando) spiega: “poteva piovere...”. Un tuono, un lampo ed inizia IL diluvio. Frankenstein si gira sconsolato verso il gob­bo, con un vago desiderio omicida. Ho visto varie volte quel­la scena e ogni volta rotolo dal ridere. Stavo vi­vendo qualcosa del genere, solo che ora non c'era niente da ridere. Tutto precipitò di nuovo, catastroficamente. Un suono che mi agghiacciò pervase e fece tremare tutto l'Universo. Alzai gli occhi semplicemente verso l'alto e fui praticamente certa che la mia ora fosse giunta. A non più di 20 metri Rudy, libero, mi stava fissando. Paolo lo aveva definito un demone; io, ora, sapevo che era un demone. I suoi occhi adesso accesi di vita, esprimevano una furia e un'ira infinite; seppur libero, era stato imprigionato e questo era per lui, intollerabile. Prese fiato e di nuovo quel ruggito infinito scosse la mia anima; fece un passo verso di me e Paolo. La mia mano strinse la presa su Paolo e quasi non riuscii a dire “Paolo, Rudy!”. Paolo aveva alzato la testa, guardando Rudy dritto negli occhi e ora si stava alzando in piedi. Stava SFIDANDO Rudy. Paolo è un uomo 'grande', ma non è mai stato minaccioso, né ha mai guardato storto qualcuno e forse ha una massa di un millesimo rispetto a Rudy, ma ora, il suo odio, sembrava renderlo quasi pari a quel mostro. Per la prima volta vidi quel sentimento devastante ben dipinto sul suo volto. Paolo parlò con una voce irriconoscibile, scandendo ogni singola parola, facendomi tremare: “tu sei morto!” So anche io che era assurdo, ma le sue parole mi sembrarono credibili; in 15 anni nessuna affermazione di Paolo è stata mai smentita, perché sempre dichiarata su basi realistiche e suffragata da debita dimostrazione e ormai ne ero forse condizionata. Rudy, forse spiazzato da quell'assurdo atteggiamento, lo guardò balzare verso l'entrata del laboratorio e, mi resi conto solo dopo, aveva capito prima di me cosa aveva intenzione di fare Paolo. Spiccò un salto verso di lui, ma un fascio di neutroni concentrato lo investì a mezz'aria. Paolo lo aveva colpito con il cannone con cui avevamo distrutto la porta di accesso al laboratorio, che ancora era parcheggiato dove era stato usato solo due giorni prima. Vidi che sia il cursore dell'ampiezza che quello dell'intensità erano a fondo scala. Guardai nella direzione in cui Rudy era volato ma feci solo in tempo a vedere un lampo di luce azzurra seguito da una ventata e una scia di una massa rossa che volava attraverso lo squarcio del soffitto che il lampo aveva creato. Paolo sparò ancora ma ormai Rudy era fuggito. Paolo smise sparare e con estremo sconforto disse: “È scappato!”. Guardai il suo viso: piangeva, disperato. Lo abbracciai, accarezzando la sua testa. “Lo voglio morto!” disse. “Anche io!” gli risposi guardandolo negli occhi “ma dobbiamo dare l'allarme all'esterno”.

1Era un gingillo di derivazione militare, come si può desumere dalla fantasia del nome...

2Tsar, una bomba ad idrogeno, è stata realizzata come un dispositivo a tre stadi: una bomba a fissione che comprimeva e faceva esplodere una certa quantità di idrogeno, dall'esplosione della quale si ricavava energia per far esplodere una quantità molto maggiore di idrogeno; come risultato la potenza dell'esplosione (di circa 50-55 Mega­tons) fu di 14.000 volte quella unita delle due bombe che distrussero Hiroshima (13-18 Mt) e Nagasaki (21 Mt), dieci volte la potenza di tutte le bombe usate nella Seconda Guerra Mondiale e un quarto della potenza dell'esplosione del vulcano Krakatoa; il calo­re dell'esplosione fu percepito ad oltre 270 chilometri e avrebbe provocato ustioni di terzo grado a meno di cento, dato che la palla infuocata aveva un diametro di circa 8 chilometri con una base del fungo atomico di 40 chilometri e un'altezza di 64.


3Il neutronio è una forma di materia degenerata, composta solo da neutroni; esiste solo nelle stelle di neutroni, nate dal collasso gravitazionale di astri molto più grandi e mas­sicci del sole, ma non tanto da poter diventare supernove e collassare in buchi neri; durante il collasso che si genera dall'esaurimento del combustibile che alimenta una stella (inizialmente l'idrogeno, per poi passare per molti altri materiali), la massa genera una pressione tale che, insieme all'enorme temperatura, che ripulisce gli atomi dagli elettroni, “schiaccia” insieme i neutroni dei nuclei, che altrimenti essendo carichi positivamente tenderebbero a respingersi. Dove in genere c'è molto spazio libero (confron­tata alla massa delle particelle lo spazio che le separa è enorme), ora di spazio non ce né più. Un cucchiaio di neutronio può pesare centinaia di miliardi di tonnellate.