mercoledì 10 aprile 2013

ADE - PRIMA PARTE




Da quando la storia viene registrata, oralmente o vo­calmente, sappiamo che in ogni tempo e in ogni luogo, tutte le culture e tutte le civiltà hanno sempre raffigurato almeno una parte dell'altro mondo come un posto dove espiare i peccati della vita vissuta in questo. Ogni raffigurazione mo­stra demoni o mostri che seviziano, torturano, puniscono i rei. Spesso (come nella raffigurazione cristiana) i diavoli pre­posti a questo mestiere sono di colore rosso acceso, hanno le corna, la coda a punta di freccia e occhi come tizzoni ar­denti. Hanno anche ali membranose come quelle dei pipi­strelli e volano minacciosi sopra le teste delle anime danna­te. Quelli più grandi a prima vista sembrano dei draghi. Già, i draghi. Anche loro compaiono in ogni mito di ogni civiltà o religione di ogni parte del mondo. E' un mistero come siano diffusi tra popoli che (per quanto se ne sappia) non si sono mai incontrati, tra cui non ci sono mai stati contatti. Eppure in tutto il mondo ed in tutte le epoche, tutti conoscono storie di draghi, con o senza ali, a due o quattro zampe o anche senza zampe ma con le ali. Sono di vari colori, verdi, neri, blu e ovviamente rossi. Ma tutti, invariabilmente sputano fuoco. Ce ne sono anche di buoni e saggi (così come esiste anche il paradiso o un qualsiasi luogo dove dopo la morte i giusti riposano), ma nella maggioranza dei casi i draghi por­tano morte e distruzione, le peggiori immaginabili. Si può morire in innumerevoli maniere e nessuna piacevole, ma quando una bestia enorme, terrificante e terribile, prima in­cenerisce tutto quello che ti circonda e poi, per completare l'opera, incenerisce te, l'orrore, anche al solo pensiero, è as­soluto. Non uccide, ma annienta, cancella.

Il concetto di male e punizione, bene e ricompensa sono necessariamente universali, perché gli esseri umani li hanno radicati nel proprio codice genetico, etico e culturale e sono quindi indissolubili dalla coscienza umana, ma quan­do si tratta di dare forma al male, all'orrore, alla devastazio­ne sarebbe lecito aspettarsi che culture diverse, lontane le une dalle altre, immerse in ambienti naturali e quindi che co­noscono animali predatori diversi (Africa, leoni; Asia, tigri; Europa, lupi; America del Nord, orsi; ecc.), traggano spunto, magari esagerandone i caratteri, da ciò che avevano difronte nella loro esperienza comune e spesso questo av­viene. Ma ancora una volta i draghi li conoscono tutti...

Non esistono reperti fossili di niente che potrebbe far pensare ad un drago, ma ogni mito che ne parla afferma sempre che sono molto rari e quindi le prove potrebbero an­che esistere ma non essere state trovate; meglio ancora, potrebbero non esistere reperti fossili, visto che il fenomeno della fossilizzazione è di per sé rarissimo e, tanto per fare un esempio, solo la diffusione globale dei dinosauri (miliardi e miliardi devono aver abitato la terra nelle centinaia di milio­ni di anni del loro dominio) ha permesso che qualche miglia­io di fossili si formassero e arrivassero fino a noi.

Quindi per buona pace e tranquillità di tutti, la be­stia delle bestie (come è stata definita nel medioevo euro­peo), viene, nei tempi più moderni meno avvezzi alle fanta­sie mitiche, definita un mito irreale.

Questo è quello che è stato detto fino ad una pri­mavera del 2125.



Bella giornata, piena di promesse”. Non c'era mai stato niente che potesse fargli sembrare brutta una giornata all'aria aperta, neanche 40 gradi all'ombra, sotto un sole im­placabile come quello che ci martellava ormai da 15 giorni. Ma in fondo lo capivo; pur con qualche sofferenza in più, an­che a me piaceva stare all'aria aperta e ho sempre concor­dato con Chris che il nostro era il più bel lavoro del mondo. L'archeologia è sempre stata una attività dura e difficile: la­voro sul campo, spesso in condizioni disagevoli, per non dire pericolose; tanto per fare un esempio, ricordo quella volta, che essendo riusciti ad ottenere il finanziamento per degli scavi in Persia, finimmo direttamente in mezzo al con­flitto tra Nuovo Impero Persiano e Repubblica Israeliana, e solo diplomazia, tantissima fortuna e un “pizzico” di faccia tosta, nel far credere e raccontare che gli scavi avrebbero “certamente riportato alla luce la gloria dell'Antico Impero Persiano”, ci fecero evitare guai molto seri (ero amico perso­nale del generale israeliano e questo risolse l'altra metà del problema).

Ma il fascino delle civiltà scomparse o addirittura sco­nosciute, con tutto il corollario di storie, leggende e misteri mi aveva accompagnato fin da quando, da bambino, comin­ciai a sentir parlare, nelle lezioni di Storia, dei vari popoli an­tichi.

“Paolo, che ne diresti di darti una svegliata e venire a darmi una mano?”. Potrebbe sembrare una domanda, ma in realtà era un'ordine e piuttosto stringente; non ero mai riu­scito a far capire a Chris che non tutti, appena svegli, pote­vano avere o, semplicemente voler avere, la reattività tipica di una condizione di 'allarme rosso', (cioè dito sul pulsante di lancio di ogni e qualsiasi arma nucleare strategica e sangue completamente sostituito dall'adrenalina), quindi, con calma olimpica, ignorandola accuratamente, finii il mio 'sacro' caffè, mi alzai e dopo aver raggiunto Chris, usai la mia considerevole forza per farla girare su se stessa, la guardai nei suoi splendidi occhi verdi e, prima che protestasse offesa, la baciai, in quella maniera, dolce e intensa, che la aveva fatta innamorare di me e che le toglieva qualsiasi capacità di reazione. Io sono sul metro e ottanta, ma mi sono sempre tenuto in forma allenandomi con i pesi e perciò supero di un “pochino” i 100 kg di muscoli ben definiti; lei è una bambolina di un metro e cinquantacinque, in forma e robusta, che però non supera i 55 kg, ma la sua ira è leggendaria e non c'è deterrente fisico che possa impressionarla; per fortuna io sono un orsacchiotto indistruttibile e la mia calma e dolcezza trovano sempre qualche varco in quel carattere di titanio.

“Buongiorno amore”, proseguii. “Si, è una splendi­da giornata; un filino troppo calda, mia Regina degli Inferi e Angelo del Paradiso, ma tant'è...”. La chiamo così dalla mat­tina della nostra prima notte insieme. In quell'occasione mi guardò con aria divertita, le era chiaro che ero cotto come un pollo alla diavola, ma era anche conscia che non parlavo a vanvera e quella colorita definizione doveva pur avere un senso. “Cosa intendi dire, esattamente, Paolo?”; avrei impa­rato che le sue domande dovevano sempre avere una rispo­sta. La più precisa possibile. La guardai sorridendo: “hai un corpo di una bellezza demoniaca, che adoro, amo e sempre desidero, e il tuo viso è l'essenza della beatitudine angelica; quando mi strilli dietro, con la tua dolce voce, come testimo­niano i notevolissimi danni a finestre e intonaci delle mura di tutto il campus, un terrore infernale pervade ogni persona, me escluso, ma la tua dolcezza mi rende un beato demente”. Mi abbracciò quanto più stretto le fu possibile e quando si allontanò, piangeva, felice. Avevo usato quella che io definisco “esagerazione metaforica”, facendo il cretino, ma confessando il mio amore. Avevo detto che non era perfetta, ma che proprio questo suo incredibile mix mi aveva fatto impazzire.

Lei è Christine e l'ho conosciuta il primo giorno che sono arrivato a prendere la mia camera al Marshall College (Connecticut, USA). Si. Avete capito bene: lo stesso dove Sir Indiana Jones insegnò e di cui divenne rettore fino alla sua morte. Avevamo vinto entrambi la borsa di studio in pa­lio per quell'anno (era il 2110), ed il nostro fu un caso straor­dinario perché la borsa di studio era sempre stata inderoga­bilmente una sola. La motivazione che il consiglio esamina­tore diede al Rettore per convincerlo a quella doppia spesa (e lui non ebbe niente da obiettare, pur con una evidente nota di dolore nei suoi occhi neri e sinceri) fu che entrambi, con il solo ausilio di strumenti satellitari (io) e con l'utilizzo di tecniche di analisi neutrinica (Chris), eravamo stati in grado di “apportare significativi contributi ed avanzamenti alla scienza archeologica, tramite una innovativo uso dei mezzi di analisi più avanzati”. La sterilità della motivazione nascon­de, in prima battuta, delle enormi conseguenze, in tutti i sen­si. Nel mio caso si era trattato, grazie alla collaborazione di un direttore di dipartimento della NASA e con l'uso di tempo macchina di un satellite per l'analisi geologica, di rintracciare l'ubicazione di Atlantide, e nel caso di Christine nell'essere stata in grado di dimostrare che la Sindone era, in un certo qual modo, autentica e che la sua creazione aveva richiesto una manipolazione a li­vello quantistico, che aveva modificato la struttura stessa della materia. La data della distruzione di Atlantide e della creazione della Sindone coincidevano. Avevamo anche però dimostrato che la Sindone non aveva niente a che fare con la morte di Gesù di Nazareth, pur non essendo un falso me­dievale. Il nostro corso di studi consistette nell'analizzare e comprendere le implicazioni di questi fatti; dato che dei test preliminari dimostrarono la nostra competenza nel settore, passammo direttamente dallo status di dilettanti di grande genio a quello di massimi esperti e studiosi della storia della prima civiltà umana (o almeno terrestre) e dei motivi che avevano causato la sua completa distruzione. Furono 15 anni intensi e fantastici.

Eravamo in pieno deserto del Sahara, dove aveva­mo rintracciato una colonia Atlantidea. Era una città che se la struttura poteva essere confrontata con quella delle nostre città più grandi (altezza media 10-12 piani) aveva ospitato al­meno 5 milioni di abitanti. Era la meglio conservata delle 7 che fino a quel momento avevamo scoperto. Ci stava vera­mente creando dei problemi, perché non c'era una data del­la storia nota fino ad allora che avesse riscontri con le data­zioni che ora stavamo riscontrando. Si può dire che ogni giorno portava una rivoluzione. Atlantide è stata distrutta al­meno un milione di anni fa (altro che 10-12 mila!). Quindi: 1) la civiltà umana (se, come sembrava, gli atlantidei erano umani) e, forse, anche la stessa razza (Homo Sapiens sa­piens) erano mooolto più vecchie; la Sindone analizzata da Chris aveva anche rivelato che la persona impressa nel telo di lino era solo apparentemente umana ma leggermente di­versa, che Chris stessa aveva provvisoriamente chiamato i Super Sapiens, quindi forse un Atlantideo; 2) qualcosa di immensamente potente aveva fatto tabula rasa degli atlanti­dei sulla Terra, perché la loro scomparsa era stata istanta­nea e contemporanea su tutto il pianeta, ed era evidente che essi erano almeno 10.000 anni più avanzati di noi.

Quella mattina era in programma l'apertura di una camera ad uno dei livelli più bassi della zona che avevamo definito “Ricerca e Sviluppo Atlantidea” (ReSA), nella quale zona, era ormai evidente, gli Atlantidei, o come Chris li ave­va ribattezzati (Chris aveva il pallino per dare i nomi alle cose nuove, creando spesso degli arguti acronimi), gli Dei Atlantici e quindi “(la) DeA”, avevano installato i laboratori per le più avanzate ri­cerche scientifiche; Chris è una femminista estremista, nel senso che ogni fatto viene interpretato con ottica femminista fino alle sue estreme conseguenze. Le donne influenzano gli uomini e quindi, de facto, governano il mondo, e chi se ne frega se, ammetto la colpa e la vergogna, esse sono sempre state maltrattate, sottomesse, ingiuriate ed accettate in certi ruoli solo come estreme eccezioni, peraltro di como­do; l'estremismo, a farsi intimorire, si manifesta nella minaccia fisica vera e propria, difronte alla non assolu­ta concordanza nei confronti dei pareri espressi da Chris. Ho personalmente assistito ad un litigio tra Chris e una sua compagna di studi. L'altra sosteneva che il ruolo della don­na, anche se istruita ed intelligente, è “per natura” sottomes­so a quello dell'uomo, più forte, coraggioso e via così banaleggiando. Solo il mio istinto ha evitato lesioni gravi a quella povera ingenua: mi sono messo in movimento reagendo di riflesso e ho intercet­tato il bicchiere lanciato da Chris a meno di due centimetri dalla testa dell'altra. Poi, ho preso da parte Chris e l'ho fatta piangere. Ometto, per decenza, quello che le ho detto.

Raggiungemmo il portale che ci teneva impegnati da giorni, con il suo sistema codificato di sicurezza e che, non riuscendo assolutamente a decifrare, avevamo deciso di forzare, tagliando parte della sezione centrale dell'anta di sinistra. Sospettavamo che la violazione del sistema di sicu­rezza potesse essere pericolosa e di conseguenza erano state approntate tutte le accortezze del caso: il laser neutro­nico da perforazione era stato adattato per un aumento gra­duale della potenza; lo avrei manovrato io (mia la decisione, mia la responsabilità, mio il rischio), in remoto, da dietro una corazzatura di kerbanio (una nuovissima “mistura” tra carbonio, tita­nio omega e kevlar mono-molecolare) in teoria in grado di resistere ad esplosioni nucleari entro il raggio di 500 metri (in quel caso con la necessarie aggiunta di un pannello di piombo iper compresso, per schermare le radiazioni).

“Chris, mi controlli i valori di pre-carica del cannone?”. Mi girai a guardarla (era un centinaio di metri più indietro, nascosta oltre una ulteriore corazzatura, che pro­teggeva anche tutti i sensori). Anche se era lontana, i suoi occhi mi dicevano che era molto spaventata dai rischi di quella situazione, ma la sua voce suonò abbastanza calma nell'auricolare “stand-by a 0.25 G-joule...” mi fu evidente la pausa e quindi seguitai a guardarla “...ti aspetto tutto intero, non fare cazzate.” Le spedii un bacio e lei rispose con il suo migliore sorriso e con gli occhi lucidi. Mentre riflettevo che ancora nessuno era riuscito a capire come fossi riuscito a conquistarla e a sopravvivere (non necessariamente in quest'ordine), mi girai verso la macchina, soprannominata il Cannone1, capace di emettere un raggio perfettamente coe­rente di neutroni, fino a potenze equiparabili a quelle del più potente ordigno nucleare mai realizzato, Tsar2, dell'ex Re­pubblica Socialista Sovietica, più sicuro, perché direzionabi­le, ma più letale, per ciò che veniva colpito, per la sua con­centrazione. I neutroni fanno parte del nucleo di ogni atomo noto e sono di carica neutra, molto pesanti e, una volta emessi (sono responsabili delle principali radiazioni nuclea­ri), se colpiscono un altro atomo, possono spaccarlo in due (la nota fissione nucleare). Possono avvenire due cose: nei confronti di materiale molto pesante ed instabile, come il plutonio, la scissione provoca una riemissione di altri neutro­ni, con un effetto a catena incontrollabile e anche devastan­te (come nelle esplosioni nucleari), nel secondo caso l'ato­mo più leggero e/o stabile viene spaccato e quindi la struttu­ra materiale che lo contiene ne viene indebolita. Ecco per­ché è fondamentale sapere quale materiale si sta trattando. Nel nostro caso eravamo relativamente sicuri, perché il por­tone era lì da oltre un milione di anni e sembrava appena ar­rivato dalla fonderia e montato; le analisi preliminari avevano mostrato solo che era un materiale elementare (cioè non era una lega) ultra compatto, molto più di quello che eravamo riusciti ad ottenere noi esseri umani. Il pannello di piombo ultra denso che si abbinava al kerbanio era circa 1.000 volte più denso del piombo naturale. Il portale era di un'ulteriore fattore 1.000 più denso. Avevamo perfino sospettato che si potesse trattare di una forma di neutronio3 artificiale, ma speravamo di no, altrimenti avremmo al massimo potuto renderlo ancora più compatto, aggiungendo neutroni, oppu­re non avremmo ottenuto che uno spettacolare, ma inutile consumo di energia.

Appoggiai le mani sulle due maniglie di controllo; la sinistra aumentava o diminuiva l'ampiezza del raggio; la de­stra aumentava o diminuiva la potenza emessa. Avevo chie­sto di controllare il livello di precarica perché, pur essendo a zero la posizione della manopola (come quella dell'accelera­tore di una moto), se il “minimo” fosse stato troppo alto avrei rischiato di farmi male. Cominciai a girare verso di me la manopola, lasciando alla massima ampiezza il raggio... niente. Brava la DeA: roba molto robusta. Portai al 25% l'ampiezza, senza aumentare la potenza... la porta cominciò a diventare rossa. Andai avanti così (prima la potenza, poi l'ampiezza, a scatti del 5%) per 6 cicli; mi fermai e, afferran­do una mazza di titanio omega da 25 Kg mi avvicinai al por­tone. Sentivo gli sguardi di tutti, ma particolarmente di Chris, su di me, e quando fui a misura, caricai il movimento, por­tando la mazza in alto e indietro, iniziai il movimento compo­nendolo in orizzontale, per la maggior efficacia e... BANG. Miliardi di frantumi volarono dappertutto, in perfetto ordine sparso. Mentre aspettavo che la polverosa nebbiolina che si era creata si posasse, venni raggiunto da Chris, che senza dire una parola mi abbracciò da dietro, stringendomi fortissi­mo; appoggiai le mie mani sulle sue, contro il mio petto, mentre cominciavo ad intravvedere l'interno del laboratorio, dei suoi macchinari e... dell'immensa sezione di sfera al suo centro, che presupponeva una camera sferoidale interrata. “Sarà qualche genere di camera di contenimento”, azzardò Antonio, il nostro più fidato collaboratore e anche amico, che, insieme agli altri del gruppo, si era unito a noi, mentre ci avvicinavamo, più curiosi che prudenti. “Sembra più una gabbia per uccellini”, sentenziò Chris, mentre raggiungeva­mo il bordo della sfera interrata, abbassando il nostro sguar­do verso il basso. L'uccellino in questione era alto almeno 25 metri, aveva ali smisurate, con corna sulla testa affusolata e allungata, era rosso fuoco e bé, era, al di là di ogni ragionevole dubbio, un drago. In stasi, si, in stasi; era una sorta di mantra che mi andai ripetendo ogni singola volta che guardando in basso mi trovavo ad incrociare gli occhi, ma grazie alla DeA, non lo sguardo di quella formidabile bestia. Una tigre in gabbia sai che è pericolosa, ma solo in potenza. Lui mi terrorizzava, anche separato da un materiale praticamente indistruttibile...

Dedicammo l'intera giornata a cercare di capire cosa (il come era un'altra storia) tenesse in sospensione vi­tale Rudy; no, tranquilli, non c'era una targhetta al collo del drago. Simona, una delle laureande più giovani, ci raccontò, che, nel paese in cui era cresciuta, era vissuto un dobermann con quel nome e con quegli stessi occhi, che uccideva qua­lunque cosa respirasse che non fossero i suoi padroni, ma che, era opinione comune, fossero solo tollerati perché era molto più semplice ottenere cibo e riparo così che non da soli. Rudy era stato abbattuto quando un bambino era stato aggredito, e quasi ucciso, per il solo fatto di essere passato davanti a casa dei suoi “padroni” subito prima dell'ora di cena. In quel paese, l'ora della cena per i cani era stata anti­cipata di 3 ore ed era stata aggiunta una SECONDA cena, non tanto perché le persone avessero semplicemente paura dei cani che sono compagni dell'uomo (ma anche della don­na) da millenni, ma in particolare perché Rudy aveva un hobby: ogni singolo cane femmina aveva ricevuto le sue visi­te sessuali e non aveva mai rifiutato di accondiscendere (chissà, forse il solito fascino dei “cattivi ragazzi”); quindi, in giro, c'erano molti eredi di Rudy accertati e non: risultato di quell'aumento alimentare fu un pandemico e vertiginoso au­mento di malattie cardiovascolari per obesità canina e con­seguenti ricorrenti morti premature di molti amici canini. Rudy era assolutamente il nome giusto. Anche da morto era letale.

Fu presto evidente che ogni singolo apparato di quel laboratorio collaborasse a ottenere e mantenere la sta­si, il tutto alimentato da un generatore di energia ad antima­teria (ancora una volta brava la DeA) che, dai primi calcoli effettuati e al tasso di consumo attuale, aveva scorte per cir­ca altri 5 milioni di anni (!).

“Sembra che abbiano cercato di dare il tempo, a chi fosse venuto dopo, di arrivare ad un livello tecnologico sufficiente a trovare una soluzione definitiva al problema drago”; Chris, mi guardava mentre esprimevo questa consi­derazione iniziale; si mise in bocca un pezzo di panino al tonno (cena semplice, quella sera), masticò e ingoiò con un sorso di vino rosso. Aggiunse: “vorrebbe dire che erano pra­ticamente certi della loro distruzione”; seguii la sua stessa procedura alimentare, vino a parte (non bevo schifezze; pre­ferisco un'edulcorata, sintetica bevanda, genere cola, che un orribile alcolico, non avendo acqua a disposizione): “ergo non possiamo considerare Rudy un'animale pericoloso qual­siasi, altrimenti basterebbe una fucilata, con un fucile bello grosso, per abbattere l'uccellino”; cadde nuovamente il si­lenzio, ma non durò a lungo. Antonio entrò nella saletta che avevamo requisito come refettorio urlando: “Chris, Chris, Rudy sta ballando!”; Antonio senza nominarmi si girò verso di me, ma io lo stavo già superando in direzione Rudy, se­guito da Chris a due passi.

Ci fermammo davanti alla gabbia (in realtà compo­sta da un materiale trasparente di resistenza circa pari a quella della porta, ma in quel momento di composizione ignota). Il movimento era continuo, seppur lentissimo. “Anto­nio, voglio vedere le riprese della videocamera 17”; avevamo piazzato, già dalla mattina una videocamera su Rudy, che altrimenti era invisibile dal resto della sala. Raggiungemmo il sistema di videosorveglianza e un sospetto mi raggelò il sangue; era già da alcune ore che una strana vibrazione si faceva sentire, ma quello era un posto dai numerosi misteri e Rudy aveva assorbito tutta la mia attenzione. Ora girai istintivamente gli occhi verso gli indicatori dell'assorbimento energetico (10 quadranti circolari, in serie, che indicavano i 10 reattori che fornivano l'energia al sistema), erano tutti a fondo scala; l'energia emessa in quelle condizioni ogni mi­nuto, avrebbe alimentato l'intera Terra per un mese; quando eravamo entrati, quella stessa mattina, 12 ore prima, l'assor­bimento era a malapena del 0,1%; il puzzle si stava compo­nendo davanti ai miei occhi; il tassello finale furono le imma­gini registrate e accelerate della videocamera: Rudy si stavo dimenando e questo aveva costretto il sistema di controllo della stasi ad aumentare l'emissione e quindi il consumo di energia. “Sta cercando di liberarsi”, dissi io; “si, cercando di consumare tutta l'antimateria”, aggiunse Chris. Era calata una coperta gelata su tutti noi. Una domanda era sospesa nell'aria: quanto rimaneva prima che Rudy potesse liberarsi? “Dai tre, ai sei mesi, se non dovesse fermarsi mai”; Antonio aveva risposto per tutti e il gelo divenne paura e malcelato panico. La situazione andò peggiorando con imbarazzante regolarità e tempismo, via via che i nostri studi sul sistema di stasi facevano progressi.

La mattina successiva, dopo una notte quasi inson­ne, eravamo immersi in una nebbia di confusione e acuta preoccupazione. Nessuno di noi si era mai trovato in condi­zioni così estreme; il massimo che può capitare nel nostro lavoro (escludendo rischi esterni come le guerre nelle zone in cui ci si trovava ad operare) è finire sotto ad un crollo di macerie antiche di millenni, non che qualcosa di infinitamente distruttivo risorga da un passato devastato per mettere in scena il secondo atto. I reperti fossili di animali estinti, in genere, se ne stanno buoni buoni a farsi studiare, restando estinti e non cercando di liberarsi per ucciderti.

Ci avviammo al laboratorio. Ci venne incontro Si­mona, per ragguagliarci. “Buongiorno, ragazzi. Prima noti­zia: Rudy si è calmato, ed è tranquillo da un paio di ore. Se­conda notizia, abbiamo installato il programma che calcolerà in tempo reale consumo e durata dell'energia -M (l'antimate­ria). E poi credo di aver capito come funziona il campo di stasi”. La stavamo guardando tutti in attesa; ci era stata rac­comandata come genio assoluto della fisica e della matema­tica ad essa connessa e forse erano stati perfino prudenti.

“La vibrazione che sentiamo da ieri pomeriggio...” annuii fra me e me “...dovrebbe essere dovuta alla riattiva­zione dell'acceleratore che produce i gravitoni che sono la fonte del campo di stasi...” bocche aperte, sopracciglia alza­te “...e che circolano in un'intercapedine della gabbia, crean­do un campo gravitazionale, focalizzato verso il centro, che, come ci disse il signor Albert Einstein, rallenta il flusso tem­porale proporzionalmente alla sua stessa intensità. In defini­tiva, una stella di neutroni sferica artificiale.”

Come dissero gli Antichi, di necessità, virtù. Per cercare di tenere sotto controllo una cosa altrimenti incon­trollabile ed indistruttibile, gli atlantidei si erano dovuti inven­tare una cosa realmente incredibile. Questo, ancora una vol­ta ci rimetteva difronte alle dimensioni del problema “Rudy”. Quale essere vivente può spaventare una civiltà così avan­zata e potente, e pure una volta limitate le sue possibilità di azione, riuscire anche a contrastare ciò che lo limita? O me­glio, avere capito, che per riuscire a liberarsi, doveva au­mentare il consumo energetico di un campo di stasi che si­mulava una stella di neutroni, riuscendo a muovere il proprio corpo contro un campo gravitazionale, che in natura era una delle forze più grandi conosciute? Mi veniva in mente una sola definizione: Demone.

Rimanemmo nel laboratorio tutta la giornata a con­trollare le azioni di Rudy e a cercare di capire il da farsi; in ogni caso le nostre azioni era vincolate dalle azioni di Rudy e dalla nostra limitata conoscenza della tecnologia e delle conoscenze atlantidee. Ma con il passare del tempo impa­rammo alcune cose. Simona si era resa conto che, in defini­tiva, ogni sistema tecnologico risponde agli stessi criteri e necessità. Misurare ed indicare le misure; accendere e spe­gnere; regolare l'intensità degli interventi. Quindi si trattava di capire come gli atlantidei avessero reso i controlli.

“Vedi Paolo...” mi stava spiegando Simona, indican­do su un d-pad l'immagine digitale dei sistemi di controllo “...questo selettore apre il circuito che immette l'energia pro­veniente dalla reazione materia–antimateria...” la interruppi “scusa, Simona, ma se non sbaglio la reazione materia–an­timateria è caldina...”. Capendo al volo Simona ampliò la spiegazione: “hai ragione. La reazione crea un flusso di foto­ni immensamente energetico, oltre che a temperature di mi­lioni di gradi, che prima viene “raffreddato” tramite dei laser che ne polarizzano e rallentano il movimento e che poi viene indirizzato verso le bobine raffreddate quasi allo zero asso­luto, che è di -273,15, e cioè a -273,05; come sai la resisten­za elettrica viene quasi annullata per via del manifestarsi dell'effetto di superconduttività, quindi l'energia non va spre­cata minimamente e l'acceleratore ha una resa inimmagina­bile per le nostre tecnologie attuali. Alla fine, le collisioni tra le particelle creano una super densità paragonabile a quella presente nella materia collassata di un buco nero, che rilascia gravitoni, poi incanalati verso la gabbia da due direzioni diverse; così nell'intercapedine della gabbia si crea un reticolo gravitazionale che simula un enorme campo gravitazionale interno, che ottiene due scopi: tempo rallentato e gravità quasi infinita.” Mi guardò per cercare segnali di comprensione. Le diedi la massima soddisfazione possibile: una domanda sensata. “Ma se la gravità è praticamente infinita come si spiega che Rudy non viene 'spalmato' a terra?”. Mi sorrise, come se fosse stata sicura di avere un buon allievo che era semplicemente necessario indirizzare: “Il reticolo che si forma dalla circolazione dei gravitoni ha forma sferica e quindi, siccome i gravitoni hanno carica uguale fra loro, e le cariche uguali si respingono, formano un campo gravitazionale con direzione verso il centro della gabbia, così come fa uno specchio sferico o emisferico: dirige la luce verso il centro; o, se preferisci, la forma sferica del reticolo gravitazionale fa si che i vettori del campo che così viene a crearsi convergano al centro; solo che questo campo non è puntiforme come quello di un buco nero ma de-localizzato e questo grazie alla circolazione continua, a velocità prossime a quelle della luce, dei gravitoni che spostano continuamente i vettori di campo gravitazionali. In definitiva, all'interno della gabbia, in ogni punto la gravità è uguale a qualsiasi altro punto e quindi ogni atomo di Rudy è imprigionato da un campo gravitazionale equivalente a quello di un mini buco nero.” Mi guardò di nuovo, ma i suoi occhi questa volta esprimevano nervosismo e disappunto. Un segnale di chiamata dall'interfono ci interruppe proprio mentre Simona finiva la sua relazione: era Antonio, che, con perfetto tempismo, espresse i motivi di quel disappunto. “Rudy si sta agitando di nuovo”. Il quadro definitivo era che Rudy riusciva a muoversi immerso in un campo gravitazionale quasi infinito, dicendoci che aveva a disposizione risorse energetiche inimmaginabili. Sia io che Simona ci alzammo, sconsolati. E' stata l'ultima volta che ho visto Simona viva.



Un boato immenso scosse tutto intorno a noi e ini­ziarono a crollare pareti, soffitti, mobili, attrezzature. Mi ritro­vai semi sepolto da ogni sorta di rottame. Tentai di liberarmi, ma il primo sforzo compiuto fu vano; ero leggermente stordi­to e il peso dei detriti che mi era caduto addosso era rilevan­te. Ora sembrava tutto finito, anche se in lontananza si sen­tivano ancora dei rumori presumibilmente di crolli. Non ve­devo niente, tra la polvere ancora sospesa in aria e quella che intasava i miei occhi. Mi concentrai e feci un nuovo ten­tativo per liberarmi. Questa volta ebbi successo; ero stato fortunato, perché un pannello della copertura del soffitto aveva impedito che dei grossi blocchi di cemento (o quello che sembrava essere tale, nonostante fosse decisamente più robusto del tipico cemento da costruzione umano), mi fa­cessero veramente del male. Una volta in piedi cercai di guardarmi intorno per capire quale fosse la situazione. Era una vera catastrofe a cui per il momento non sapevo dare una spiegazione. Una voce familiare mi chiamò; mi girai in tempo per essere assalito da Chris che mi abbracciò e mi strinse. Per un lungo istante nessuno dei due parlò, felici di essere insieme e vivi. “Sai cosa è successo?” domandai a Chris che sapevo essere anche lei lì intorno, mentre stavo parlando con Simona. “No, Paolo, ma credo che sia saltata qualche linea ad altissima tensione. Mi è sembrato di vedere un lampo elettrico nella sala laser... forse si è surriscaldata la Linea 1, si è fuso l'isolante e un arco elettrico ad alta tensione ha incendiato qualche sostanza instabile e patatrack. Ma possiamo chiedere a Simona di venire a vedere per dirci la sua opinione. Nonostante i crolli la struttura regge...”. Successivamente Chris mi raccontò che sbiancai e sgranai gli occhi. Mi iniziò a girare la testa, ma non stavo per svenire a causa dello choc ma le parole di Chris mi avevano ricordato la presenza di Simona. Chris si era resa conto che qualcosa mi aveva spaventato e non era la distruzione che ci circondava. “Che c'è Paolo?”. “Simona era qui con me...”, risposi; cominciai a girare la testa dappertutto e a guardare in giro con i miei occhi che bruciavano, cercando di ricordare dove era Simona rispetto alla mia posizione. Anche Chris stava facendo la stessa cosa. Fu lei a trovare Simona; “Paolo vieni qui, presto” si chinò su quello che sarebbe sembrato solo un cumulo di macerie, ma mentre iniziava a scavare con le sue mani, vidi cosa l'aveva messa sulla giusta pista: la mano dove Simona portava il braccialetto di platino che suo padre, il suo amatissimo padre, le aveva regalato il giorno del diploma, tre anni prima. C'erano scritte poche parole, ma che esprimevano tutto l'amore e l'orgoglio di un padre per l'unica figlia: “Alla mia bambina, per sempre. Il futuro è tuo. Papà”. In pochi istanti la liberammo dalle macerie, ma già lo sapevo. La presi tra le braccia e le pulii lo splendido viso. Chissà perché, in momenti come questi, si riesce a pensare solo che una persona era bellissima e giovane e non che la perdita potesse essere anche la brillante intelligenza. I miei motivi erano strettamente personali e derivavano dai miei sentimenti per lei.

Il suo viso non aveva neanche un graffio, ma un grosso pezzo di soffitto le aveva schiacciato il petto ucciden­dola praticamente sul colpo; non aveva avuto la mia stessa fortuna: il pannello che aveva riparato me non era stato sufficiente a salvare lei. Il suo maglioncino copriva i danni e solo il sangue ne rivelava la gravità. La guardavo e piangevo. Avevo promesso a suo padre, che dopo la morte di sua madre per un incidente di macchina aveva solo la sua bambina, che l'avrei protetta da ogni pericolo. L'avevo così virtualmente adottata e mi ero affezionato a lei. Era una ragazza dolce e tranquilla, ma vivace e piena di vita quando non si trattava di lavoro; in quel caso diventava un computer quantistico a cui praticamente nulla poteva rimanere ignoto a lungo. Era sempre stato un piacere e anche una gioia avere a che fare con lei. Adesso era morta.


Guardavo Paolo piangere quella ragazza che an­che io avevo imparato ad apprezzare e ad amare e mi sentii infinitamente infelice.

Ormai erano oltre 15 anni che vivevo la mia vita in tutto e per tutto con Paolo e non lo avevo visto così dispera­to in nessuna altra occasione. Simona era entrata nel nostro gruppo di ricerca da appena tre mesi, tre anni prima, e io mi ero ingelosita, facendo una scenata incredibile. Paolo aveva un rapporto speciale con lei; mi aveva raccontato di averla assunta su raccomandazione di Chandra Crishsnamurti, in assoluto uno dei più brillanti premi Nobel per la Fisica della storia umana, e che chiedendo il permesso a suo padre di poterla assumere per gli scavi che erano in programma nel Sahara (in quanto lei era ancora minorenne), si era ritrovato nella condizione di doverla virtualmente adottare. Non sono mai stata incline ad una riflessività sensata e prudente e an­che in quella occasione non persi l'opportunità di mettere alla prova l'amore e la pazienza di Paolo andando molto ol­tre ogni qualunque limite decente. Davanti a tutti e sopratut­to a Simona lo accusai di “desiderare di abbandonarmi per quella bambina tutta curve”, neanche io fossi un manico di scopa, anzi tutt'altro. Simona divenne di una tonalità di ros­so che non credevo un essere umano potesse manifestare, ma che forse era consentita dal suo naturale colore di capel­li. Paolo mi guardò, alzò un sopracciglio, si avvicinò e si mise in piedi difronte a me. Temetti il peggio. Invece mi af­ferrò per le spalle, mi tirò su e mi baciò davanti a tutti. Poi mi rimise giù, a sedere, completamente frastornata e se ne andò. Così mi aveva dichiarato il suo amore, 12 anni prima, dopo 6 mesi di tira e molla da parte mia e non avevo più po­tuto resistere. Ma quella volta era una cosa diversa. Più tardi Simona mi raccontò che avevo assunto anche io una sfuma­tura di rosso veramente spettacolare e io sono bionda. In quel momento riuscii solo a chiederle scusa con un filo di voce e ad andarmene. Fu la seconda volta che il mio com­portamento faceva infuriare Paolo e faceva piangere me. Non sono MAI stata una piagnucolosa, ma rendermi conto di aver deluso Paolo mi faceva quell'effetto. Lui per me è tut­to, è l'unica cosa che veramente conta nella vita e anche solo la più remota possibilità di ritrovarmi senza di lui mi fa perdere ogni controllo, ma questo non deve giustificarmi, mai. Ho imparato presto che Paolo ha un profondo spirito di protezione, definibile come 'Sindrome del Cavaliere', per i piccoli e Simona rientrava sicuramente in quella sfera d'azione. Ma sapevo anche che lui poteva amare solo una persona e quella persona ero io. Ero lì che piangevo la mia stupida impulsività, quando una voce mi riscosse: “non è successo nulla di grave Chris”. Girai la mia testa nella dire­zione di quella vocina. Era Simona. Mi sentii pure peggio, perché stava sorridendo dolcemente. Cercai di recuperare un po' di dignità: “scusami, non ho motivo di essere gelosa di te. Sei un angelo e so che Paolo non mi tradirebbe mai.” In quel momento io ero la bambina e lei la donna adulta; mi asciugò le lacrime e, da brava italiana, mi diede un bacio su una guancia e disse: “vai da lui”. Mi resi conto che indicava con la testa verso l'altro lato del corridoio. C'era Paolo che mi guardava. Corsi verso di lui e lo strinsi con tutta la forza, sapendo di non potergli fare il minimo male. Le sue carezze mi dissero che era tutto a posto. Da quel giorno non potei fare a meno di volere un bene enorme a quella bambina dolcissima (comunque tutta curve, nonostante fosse appena maggiorenne, visto che stavamo appunto festeggiando il suo 18esimo compleanno).



Avevo appoggiato una mano sulla spalla di Paolo, per testimoniare che ero lì, con lui. In casi come questo, si cerca di farsi forza dicendo che il peggio è passato e che ora si doveva solo andare avanti, ma l'Universo aveva in ser­bo per noi altre simpatiche sorprese. In molti hanno visto la scena tratta dal film Frankenstein Junior, di Mel Brooks, nel­la quale il professore Viktor Frankenstin (volendo differen­ziarsi dal suo avo) e il suo aiutante sono intenti a scavare per procurarsi i cadaveri per i loro esperimenti. Ad un certo punto il professore emerge dalla fossa alzando una cassa da morto e sbuffando dichiara: “che lavoro schifoso!”. L'aiu­tante gobbo, con la massima calma e naturalezza, replica: “poteva andare peggio” al ché il Professore replica: “e come?” candidamente Igor (si pronuncia Aigor, mi racco­mando) spiega: “poteva piovere...”. Un tuono, un lampo ed inizia IL diluvio. Frankenstein si gira sconsolato verso il gob­bo, con un vago desiderio omicida. Ho visto varie volte quel­la scena e ogni volta rotolo dal ridere. Stavo vi­vendo qualcosa del genere, solo che ora non c'era niente da ridere. Tutto precipitò di nuovo, catastroficamente. Un suono che mi agghiacciò pervase e fece tremare tutto l'Universo. Alzai gli occhi semplicemente verso l'alto e fui praticamente certa che la mia ora fosse giunta. A non più di 20 metri Rudy, libero, mi stava fissando. Paolo lo aveva definito un demone; io, ora, sapevo che era un demone. I suoi occhi adesso accesi di vita, esprimevano una furia e un'ira infinite; seppur libero, era stato imprigionato e questo era per lui, intollerabile. Prese fiato e di nuovo quel ruggito infinito scosse la mia anima; fece un passo verso di me e Paolo. La mia mano strinse la presa su Paolo e quasi non riuscii a dire “Paolo, Rudy!”. Paolo aveva alzato la testa, guardando Rudy dritto negli occhi e ora si stava alzando in piedi. Stava SFIDANDO Rudy. Paolo è un uomo 'grande', ma non è mai stato minaccioso, né ha mai guardato storto qualcuno e forse ha una massa di un millesimo rispetto a Rudy, ma ora, il suo odio, sembrava renderlo quasi pari a quel mostro. Per la prima volta vidi quel sentimento devastante ben dipinto sul suo volto. Paolo parlò con una voce irriconoscibile, scandendo ogni singola parola, facendomi tremare: “tu sei morto!” So anche io che era assurdo, ma le sue parole mi sembrarono credibili; in 15 anni nessuna affermazione di Paolo è stata mai smentita, perché sempre dichiarata su basi realistiche e suffragata da debita dimostrazione e ormai ne ero forse condizionata. Rudy, forse spiazzato da quell'assurdo atteggiamento, lo guardò balzare verso l'entrata del laboratorio e, mi resi conto solo dopo, aveva capito prima di me cosa aveva intenzione di fare Paolo. Spiccò un salto verso di lui, ma un fascio di neutroni concentrato lo investì a mezz'aria. Paolo lo aveva colpito con il cannone con cui avevamo distrutto la porta di accesso al laboratorio, che ancora era parcheggiato dove era stato usato solo due giorni prima. Vidi che sia il cursore dell'ampiezza che quello dell'intensità erano a fondo scala. Guardai nella direzione in cui Rudy era volato ma feci solo in tempo a vedere un lampo di luce azzurra seguito da una ventata e una scia di una massa rossa che volava attraverso lo squarcio del soffitto che il lampo aveva creato. Paolo sparò ancora ma ormai Rudy era fuggito. Paolo smise sparare e con estremo sconforto disse: “È scappato!”. Guardai il suo viso: piangeva, disperato. Lo abbracciai, accarezzando la sua testa. “Lo voglio morto!” disse. “Anche io!” gli risposi guardandolo negli occhi “ma dobbiamo dare l'allarme all'esterno”.

1Era un gingillo di derivazione militare, come si può desumere dalla fantasia del nome...

2Tsar, una bomba ad idrogeno, è stata realizzata come un dispositivo a tre stadi: una bomba a fissione che comprimeva e faceva esplodere una certa quantità di idrogeno, dall'esplosione della quale si ricavava energia per far esplodere una quantità molto maggiore di idrogeno; come risultato la potenza dell'esplosione (di circa 50-55 Mega­tons) fu di 14.000 volte quella unita delle due bombe che distrussero Hiroshima (13-18 Mt) e Nagasaki (21 Mt), dieci volte la potenza di tutte le bombe usate nella Seconda Guerra Mondiale e un quarto della potenza dell'esplosione del vulcano Krakatoa; il calo­re dell'esplosione fu percepito ad oltre 270 chilometri e avrebbe provocato ustioni di terzo grado a meno di cento, dato che la palla infuocata aveva un diametro di circa 8 chilometri con una base del fungo atomico di 40 chilometri e un'altezza di 64.


3Il neutronio è una forma di materia degenerata, composta solo da neutroni; esiste solo nelle stelle di neutroni, nate dal collasso gravitazionale di astri molto più grandi e mas­sicci del sole, ma non tanto da poter diventare supernove e collassare in buchi neri; durante il collasso che si genera dall'esaurimento del combustibile che alimenta una stella (inizialmente l'idrogeno, per poi passare per molti altri materiali), la massa genera una pressione tale che, insieme all'enorme temperatura, che ripulisce gli atomi dagli elettroni, “schiaccia” insieme i neutroni dei nuclei, che altrimenti essendo carichi positivamente tenderebbero a respingersi. Dove in genere c'è molto spazio libero (confron­tata alla massa delle particelle lo spazio che le separa è enorme), ora di spazio non ce né più. Un cucchiaio di neutronio può pesare centinaia di miliardi di tonnellate.

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